Il Vallo di Adriano: la parabola dell'Imperatore

“Lascia tirare il ragazzino!”. Quattro parole semplici e profetiche. Scintilla di un bagliore accecante che avrebbe generato la parabola di un Imperatore. A pronunciarle fu Clarence Seedorf, al tramonto di un’amichevole di lusso a Madrid, il 14 agosto 2001. Era il 92’ di Real Madrid-Inter, sfida che assegnava il trofeo Santiago Bernabeu, di fronte a 80.000 spettatori in astinenza da calcio e pronti a sfidare il caldo ferragostano pur di immergersi in una stagione che sarebbe ufficialmente cominciata solo qualche settimana più tardi. Il risultato era 1-1, grazie ai gol di Vieri e Hierro, ma l’Inter in pieno recupero aveva la facoltà di gestire l’ultimo atto della partita, prima dei sempre più probabili calci di rigore: punizione dal limite in posizione centrale, a una ventina di metri dalla porta di Casillas. Un ragazzino diciannovenne brasiliano, sconosciuto al grande pubblico europeo, entrato in campo con la maglia nerazzurra numero 14 solo 6 minuti prima, istintivamente si avvicinò al punto di battuta. Movimento che non sfuggì a Marco Materazzi, intenzionato a scoraggiare quell’atto di eccessiva sfrontatezza. Dopotutto quel ‘bambino’ era appena arrivato dal Flamengo in uno scambio con Vampeta, era alla sua prima partita con l’Inter, era in un tempio del calcio europeo. Insomma, non sembrava l’occasione giusta per concedergli quel privilegio. Ed eccola, la frase. Seedorf, posizionato a un metro dal pallone, apparentemente pronto a tirare sopra la barriera, guardò negli occhi il compagno e con tono calmo e lievemente paternalistico ne fermò l’istintiva rimostranza: “Lascia tirare il ragazzino”. Come dire, vediamo che succede, mettiamolo alla prova, non si sa mai. L’arbitro fischiò, il ragazzino prese la rincorsa. 178 km/h, palla sotto l’incrocio, Casillas si mosse, sì, ma senza nemmeno vedere quel proiettile, il telecronista di Real Madrid Tv, dopo un paio di secondi di paralisi, recitò quasi sottovoce “golaço impresionante….de Adriano”. Quasi non ci credeva nemmeno lui, Adriano, e la sua esultanza ne è testimonianza: qualche passo di corsa lenta verso la panchina e timidi sorrisi nel ricevere gli abbracci di tutti i compagni, a loro volta piacevolmente sbalorditi, a partire da Materazzi e Seedorf. “La cosa divertente – avrebbe raccontato il brasiliano anni dopo - è che se guardate il video, potete vedere Materazzi con le mani sui fianchi che pensa: Questo ragazzino del cazzo sicuro la manda in curva!!! La gente mi chiede ancora oggi di quel calcio di punizione. Come hai fatto a calciare il pallone così forte? E io gli rispondo: ‘Sai che non lo so! L’ho colpita di sinistro e Dio ha fatto il resto!’ BOOOM! All’incrocio. Non lo so spiegare. So solo che è successo”. Ma chi era, questa forza della natura chiamata Adriano Leite Ribeiro? Era un bambino cresciuto in una favela, precisamente Vila Cruzeiro, a nord di Rio. Un ambiente difficile e spesso pericoloso, eppure un nido nel quale si sentiva felice. Poca scuola e tanto calcio, sport nel quale riusciva a esprimere sin da piccolo le sue potenzialità e che praticava in un campetto approssimativo e sgangherato, ma che nella sua memoria avrebbe sempre avuto i contorni della poesia infantile: “Il campo di Ordem e Progresso. Accidenti, ho giocato più a calcio qui che a San Siro. Per entrare e uscire da Vila Cruzeiro bisogna passare davanti al campo. E mio padre era davvero felice qui. Almir Leite Ribeiro. Potete chiamarlo Mirinho, come lo conoscevano tutti. Un uomo cui tutti, qui, volevano bene. Ogni sabato la sua routine era la stessa. Si alzava presto, preparava lo zaino e voleva andare subito al campo. ‘Forza, andiamo! La partita che abbiamo oggi sarà dura’, diceva. A quei tempi la nostra squadra amatoriale si chiamava Hang”. Intanto però, sin dall’età di 7 anni, Adriano frequentava la scuola calcio del Flamengo. Mettendo in mostra tutte quelle qualità che lo avrebbero caratterizzato da adulto: struttura fisica, corsa prepotente, ottima tecnica. Ma c’era un problema: il ruolo di terzino. Sì, perché se in fase offensiva Adriano diventava devastante, in fase difensiva mostrava lacune inquietanti. Che, nel suo processo di crescita, non sembravano ridursi, al punto da renderlo, agli occhi di molti addetti ai lavori, un mezzo giocatore. Fu l’intuizione di Carlos Alberto Almeida, suo allenatore quando compì 15 anni, ad aprirgli la strada verso la luce. Ma nel frattempo sulle sue spalle si era materializzata un’ombra, cupa e spaventosa come la statua del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart, pronta a inghiottirne l’anima. Durante una festa a Vila Cruzeiro, una pallottola vagante aveva colpito alla testa papà Mirinho, del tutto estraneo a qualsiasi eccesso o disputa che potesse aver generato quello sparo. Paura, terrore, smarrimento e una corsa disperata all’ospedale, con una sentenza indecifrabile: sarebbe sopravvissuto, ma nessun chirurgo gli avrebbe mai potuto estrarre dal cranio quella pallottola. Da una parte un meraviglioso sollievo, dall’altra una prospettiva densa di preoccupazioni. Che non tardarono a concretizzarsi. Almir divenne soggetto a frequenti crisi epilettiche, spettacolo spaventoso per un bambino di 10 anni prigioniero dell’impotenza, e divenne inabile al lavoro lasciando tutto sulle spalle della moglie. E di Vila Cruzeiro. Sì, perché quel posto malfamato, quel formicaio da girone infernale impasta criminalità e santità, povertà e solidarietà: “Un giorno una vicina di casa andò da mia mamma con una grande scatola di uova e le disse: ‘Rosilda, vendile. Così potrai comprare la merenda ad Adriano’. Ma lei non aveva soldi per pagarla. ‘Non preoccuparti, sorella. Vendi le uova e pagami dopo’. Un altro vicino le procurò una bombola di gas. Mio padre rimase a casa. E mia madre si occupava di due cose, mentre mia nonna mi portava agli allenamenti”. Perché la favela è questa: un luogo in cui a 30 anni hai già perso il conto degli amici morti di morte violenta, un ghetto in cui diventa un’impresa mettere insieme il pranzo con la cena, ma anche un’oasi e un laboratorio sociale: “Apriamo la porta e subito troviamo il nostro vicino. Tiri fuori il piede e c'è il proprietario del negozio in fondo alla strada, la zia che vende torte con una borsa in mano, il cugino del barbiere che ti chiama per giocare a calcio. Tutti conoscono tutti. Naturalmente, una casa accanto all'altra”. Milano non è così e per un ragazzo delle favelas finirci dentro è come sbarcare sulla Luna. Ai suoi occhi quelle strade silenziose, quelle persone comprese nei loro pensieri che camminano frettolosamente senza salutarsi, erano inquietanti scene di un film fanta-horror. E così Adriano cominciò a sperimentare un paradosso apparentemente irriducibile: il grande calcio europeo sempre sognato dai tempi di quel campetto impolverato e la vita reale mai immaginata così estranea al suo mondo. Il suo primo Natale a Milano, nel 2001, fu choccante. Non giocava più dai primi di novembre. Era rientrato Ronaldo il Fenomeno dopo il lungo infortunio al tendine rotuleo e davanti a lui c’erano anche Vieri, Ventola, Recoba e Kallon. L’epifania del Bernabeu e quel gol al Venezia alla sua seconda presenza in campionato non erano bastati a scalare la gerarchia. E c’era la saudade, quel pozzo di malinconia che sfuma i colori carioca nella nebbia padana. Di quel disagio si accorse Seedorf, ancora lui, che lo invitò a casa sua. Ma quel giorno lì, il Natale, per Adriano era il compendio del calore familiare e quella cena a casa di Clarence non faceva che enfatizzare quella lacerante nostalgia benché ammantata di sorrisi, amicizia e attenzione. Salutò in fretta, tornò nella solitudine della sua casa, prese il telefono: “Ciao, mamma. Buon Natale”. “Figlio mio, mi manchi. Buon Natale. Sono tutti qui, l'unico che manca sei tu”. Erano tutti riuniti sulla Nona Strada, in sottofondo si sentivano le risate e i tamburi che ritmavano le danze, un’immagine di gioia che si materializzava, riflessa nella finestra buia di quell’appartamento così silenzioso. E le lacrime trovarono facile strada su quel volto triste. “Ero a pezzi. Presi una bottiglia di vodka. Sono svenuto sul divano dopo quell’esplosione di alcol e pianto”. Eccola, l’accusatoria rasoiata di archi con cui nel Don Giovanni Mozart introduce sul palco il fuoco della dannazione. L’alcol come sublimazione della solitudine. Ma a quel tempo il demone non era ancora suo padrone, limitandosi ad aleggiare su un futuro tutto da scrivere. E dopotutto quella saudade era un prezzo da pagare non inaccettabile di fronte a un sogno da realizzare e a una svolta economica fondamentale per tutta quella gente che amava. E così gennaio diventò il tempo delle scelte: prima Firenze dove timbrò sei gol in 15 partite, poi dalla stagione successiva Parma, dove con Prandelli mise insieme 26 gol in 41 partite tra campionato e Coppa Uefa. La consacrazione, il segnale che convinse Massimo Moratti a tornare sui suoi passi, tanto che nel gennaio 2004 ricomprò la metà del cartellino di Adriano per una cifra monstre. Di lui non voleva più fare a meno. Già, Moratti. Quello che affittò un pullman per accogliere i 44 parenti di Adriano saliti su un aereo a Rio in direzione Milano: madre, padre, nonna e un esercito di zii e cugini di ogni ordine e grado, in perfetto stile brasiliano. Quello che anni più tardi lo avrebbe preso da parte per spiegargli che no, non ci si doveva vergognare di ammettere le proprie fragilità. E che una clinica in Svizzera avrebbe potuto rappresentare la soluzione al demone dell’alcol. Quello che, insomma, sarebbe salito volentieri su quel pullman come parente aggiunto, come secondo padre, come amorevole compagno di viaggio. Ma intanto quel 2004 diventa la svolta decisiva di una carriera e di un percorso umano. Adriano fatica a riambientarsi in nerazzurro e nelle prime 9 partite segna giusto una doppietta al Siena. Ma da marzo in poi torna quel treno di potenza e tecnica che asfalta partite e avversari: 7 gol in 7 partite, tra i quali quello decisivo proprio al ‘suo’ Parma, scavalcato alla penultima giornata, e la doppietta di Empoli, a certificare il piazzamento valido per i preliminari di Champions. In sostanza Adriano salva la travagliata stagione dell’Inter, cominciata con Cuper e finita con Zaccheroni. E l’estate sembra colorarsi di cromatismi trionfali. Vola in Perù per giocarsi la Copa America con la maglia verdeoro del Brasile e il mondo intero lo incorona Imperatore: tripletta alla Costarica nel Girone, doppietta al Messico nei Quarti, gol all’Uruguay in Semifinale, gol all’Argentina in una Finale vinta ai rigori il 25 luglio . Ora è il centravanti che tutti vorrebbero, ora è l’erede ufficiale di Ronaldo, ora è l’idolo dei due mondi. Le vacanze sono praticamente inesistenti, la sua Inter dovrà affrontare il Basilea nei preliminari di Champions l’11 agosto. Dunque non c’è tempo per festeggiare con la famiglia, Adriano torna a Milano ad allenarsi con Roberto Mancini. Ma il 4 agosto, mentre è a Bari, sul pullman che sta portando la squadra a giocare il Trofeo Moretti, ultima amichevole di lusso prima dell’inizio della stagione, arriva una telefonata. Papà Mirinho è morto: “Mia madre era davanti al corpo di mio padre, in un appartamento nel Recreio dos Bandeirantes. Ero dall'altra parte dell'oceano, su un autobus a Bari. Ancora sotto shock, ho riattaccato il telefono. All'inizio non ho pianto. Mi sentivo arrabbiato. Perché non ha preso quella maledetta medicina? Ho dato un pugno al finestrino dell'autobus. Così forte che ho rotto il vetro, spaventando tutti”. Quel colpo non manda in frantumi solo un vetro. Quella ragnatela crepitante si espande fino all’anima, prezioso cristallo sfregiato per sempre. Adriano parte per il Brasile, assiste al funerale e torna in tempo per Basilea-Inter, andata dei preliminari di Champions. Mancini lo abbraccia e gli chiede se se la sente. Occhi bassi, nessun sorriso, ma sì “me la sento”. Gli bastano 19 minuti: prende palla sulla trequarti, vince di forza un contrasto, magnetizza la palla come una calamita, scarta il portiere in uscita e da posizione defilata, di destro, la sbatte dentro con forza. Il suo volto è inespressivo, corre qualche metro verso la bandierina, alza gli occhi e indica il cielo con entrambe le mani. Si ripeterà 15 giorni più tardi a San Siro: doppietta e tanti saluti al Basilea. Il campionato conferma la sua vena e il lutto sembra completamente assorbito: 14 gol in 15 partite, un trattore che non guarda in faccia nessuno. San Siro è ai suoi piedi e canta ossessivamente il coro che lo avvolge di gratitudine: ‘Che confusione, Sarà perché tifiamo, Un giocatore, Che tira bombe a mano, Siam Tutti in piedi per questo brasiliano, batti le mani, che in campo c'è Adriano’. Il 17 ottobre 2004 è in programma Inter-Udinese, sesta giornata di Serie A. Il campionato aveva osservato una delle consuete soste per gli impegni delle Nazionali e Adriano era volato in Brasile per giocare in verdeoro. Rientra il sabato notte, la partita è alle 15. Nessuno lo prevede in campo dal primo minuto visto il viaggio transoceanico, il jet lag e la stanchezza conseguente. Ma alla lettura delle formazioni lui c’è, in coppia con Vieri e davanti a Zanetti, Veron e Cambiasso. Gli bastano 12 minuti per chiudere la partita. Al 6’ sistema la palla a terra per una punizione da 30 metri, prende la rincorsa e colpisce con una forza terrificante e imprimendo un effetto incredibile. De Sanctis ci prova, ma senza speranze. Al 12’ Veron respinge un calcio d’angolo udinese, Adriano prende palla sulla sua trequarti e comincia a correre. Furiosamente, corre. Come Ettore sul campo di battaglia davanti a Troia, corre e combatte contro il mondo come il migliore dei guerrieri. Ettore che non si sottrae alla sorte e che la sfida, Ettore che è padre e che prima della battaglia ha alzato il suo piccolo al cielo in ieratico segno di investitura alla ricerca della benevolenza degli dei. Perché ogni padre vorrebbe che il proprio figlio fosse migliore di lui, che riuscisse dove lui ha fallito, che accarezzasse quella serenità che a volte scivola tra le dita. Adriano corre, sterza, salta il primo difensore. Non guarda niente e nessuno, riprende la corsa folle e sublime, si lascia vincere dalla trance agonistica, sterza ancora e salta il secondo difensore, poi si allarga leggermente per evitare il terzo. San Siro è ammaliato, esaltato, innamorato e accompagna quella corsa come fosse l’ultima, come un’emozione da raccontare, come un momento di storia da fissare per sempre. L’urlo è impressionante come la sua progressione. A quel punto Adriano si ferma un istante e dal limite dell’area scocca l’ennesimo dardo: potente come la spada, preciso come il bisturi. San Siro esplode e si inchina a uno dei gol più belli della storia. La discesa agli inferi Ma l’Impero romano è caduto quando sembrava al suo massimo splendore, perché nella storia i fasti dell’esteriorità spesso nascondono le fragilità che ne consumano le fondamenta. E l’Imperatore in fondo lo percepisce. Il calcio non gli piace più, perché il calcio era papà Mirinho. La gloria non gli interessa, perché quando nell’anima c’è un buco che si allarga ogni giorno, diventa effimero effetto placebo. E il demone è arrivato, lo ha preso, lo ha vinto. Segna l’ultimo gol a dicembre, poi cede al calvario. Arriva spesso in ritardo agli allenamenti, non viene convocato per alcune partite, ne gioca altre a intermittenza. Anche questa è una progressione, solo meno esaltante. Nel giro di due anni l’alcool diventa il suo imperatore, capace di detronizzarlo ingannandolo con false promesse di fuga da una realtà insostenibile: “Mi sentivo felice solo bevendo, lo facevo ogni notte. Vino, whisky, vodka, tantissima birra. Bevevo di tutto. Non smettevo mai di farlo e ho dovuto lasciare l'Inter. Non riuscivo a nascondere la dipendenza. Andavo sempre agli allenamenti ubriaco, lo staff medico mi faceva dormire in infermeria. L'Inter mi ha coperto tantissime volte, alla stampa diceva che avevo dolori muscolari'”. L’Imperatore aveva scelto l’arma con cui infliggersi la condanna del declino. E forse non era un caso fosse l’alcool. Il padre lo aveva visto bere la prima volta quando Adriano aveva 14 anni, sul campetto di Vila Cruzeiro, alla fine di un torneo. Era un brindisi innocente, fatto con i compagni di squadra per celebrare la vittoria e non aveva scandalizzato nessuno, tantomeno la madre e la nonna, presenti all’evento. Ma lui, Mirinho, quando vide la scena attraversò il campo quasi di corsa, gli si mise davanti e gli urlò tutta la sua disapprovazione: “Fermati! Non è questo che ti ho insegnato!”. E malgrado le istanze benevole di parenti e amici non si fermò, prese quel bicchiere e lo gettò via. Del resto suo padre, il nonno di Adriano, era morto alcolizzato e Mirinho non aveva mai toccato una goccia di quel “veleno”. Di più, era un padre tout court che si prendeva cura non solo dei suoi figli biologici: era quello che voleva portare tutti i ragazzi al campo per tenerli lontani da tentazioni pericolose, era quello che non si produceva in discorsi profondi o filosofici, ma che con l’esempio desiderava fornire una guida sicura e credibile ai giovani della sua favela. Insomma, era Mirinho, l’uomo stimato da tutti. Mica poteva far finta di nulla. La sua morte fu un colpo lacerante e incarnò per Adriano i versi della poesia di Fernando Pessoa: La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto. La terra è fatta di cielo. Non ha nido la menzogna. Mai nessuno s’è smarrito. Tutto è verità e passaggio. La curva di Mirinho, insomma, coincise con la sua. E Adriano divenne di fatto Zeno, il personaggio creato da Italo Svevo che così, ne ‘La coscienza di Zeno’ spiega il proprio crollo: ‘La morte di mio padre fu una vera, grande catastrofe. Il paradiso non esisteva più ed io poi, a trent’anni, ero un uomo finito. Anch’io! M’accorsi per la prima volta che la parte più importante e decisiva della mia vita giaceva dietro di me, irrimediabilmente. Il mio dolore non era solo egoistico come potrebbe sembrare da queste parole. Tutt’altro! Io piangevo lui e me, e me solo perché era morto lui. Fino ad allora io ero passato di sigaretta in sigaretta e da una facoltà universitaria all’altra, con una fiducia indistruttibile nelle mie capacità. Ma io credo che quella fiducia che rendeva tanto dolce la vita, sarebbe continuata magari fino ad oggi, se mio padre non fosse morto. Lui morto non c’era più una dimane ove collocare il proposito’. Ci ha provato, Adriano, a costruire un Vallo, come il suo omonimo Imperatore romano. Ma l’unico materiale di cui disponeva era la morte del padre come pietra angolare e l’alcool come calce per i mattoni. Col risultato di costruire attorno a sé un muro dentro cui isolarsi. Esattamente come in ‘The Wall’, il capolavoro di Roger Waters e dei Pink Floyd, dove il protagonista ‘Pinky’ scivola nella solitudine mettendo insieme i mattoni dell’incomunicabilità: la morte del padre , l’amore soffocante della madre, l’ottusa e gratuita severità di certi insegnanti, i fallimenti amorosi e l’ipocrisia del successo. Con un finale agrodolce. Perché quando il giudice pronuncia la sua sentenza, lo ‘condanna’ ad abbattere il muro e a tornare tra i suoi simili. E in fondo è per questo che Adriano è fuggito dall’Italia. Il suo è stato un ‘nostos’, un ritorno funzionale alla salvezza della sua anima. E così nel dicembre del 2007 Moratti lo lasciò andare, in prestito per 6 mesi al San Paolo, sperando che quell’esperienza in patria si rivelasse terapeutica. Ma al suo ritorno in nerazzurro Adriano non aveva risolto nulla e per di più ad Appiano trovò Mourinho, tutt’altro che incline ad accettare quelle distorsioni disciplinari cui ormai l’attaccante aveva abituato. Con lui giocò una manciata di partite e in coppia con Ibra segnò il suo ultimo gol nerazzurro in un derby contro il Milan. Ma ormai il rapporto con l’allenatore aveva ampiamente superato il punto di non ritorno e così, a marzo 2009, ecco la fuga definitiva: “Mi hanno convocato in nazionale e prima di partire Mourinho mi dice: ‘Non torni più, vero?!’ Gli ho risposto: ‘Lo sai’. Biglietto di sola andata. La stampa diceva che ero ‘scomparso’. Dicevano che ero tornato nelle favelas, che mi stavo drogando e tante altre storie incredibili di tutti i tipi. Pubblicavano foto mie dicendo che ero circondato da criminali e che la mia storia era una tragedia. Mi nascondevo a Vila Cruzeiro. Ho girato tutto il complesso per tre giorni. Nessuno mi ha trovato. Non c'è modo di farlo. Regola numero uno della favela. Tieni la bocca chiusa. Pensi che qualcuno farebbe la spia? Qui non ce ne sono. La stampa italiana è impazzita. La polizia di Rio ha persino condotto un'operazione per ‘salvarmi’. Hanno detto che ero stato rapito. Mi veniva da ridere”. In effetti il 4 aprile Julio Cesar prese l’aereo per il ritorno a Milano, Adriano no. Non sarebbe mai più tornato in nerazzurro. In estate la cessione al Flamengo, dove tutto era iniziato. Poi il tentativo romano destinato al fallimento: 8 presenze complessive in maglia giallorossa con Ranieri nel 10/11, zero gol: “Sapevo che per me fisicamente era finita. Puoi operarti, fare riabilitazione e provare ad andare avanti, ma non sarai mai più lo stesso. Avevo perso esplosività. Avevo perso equilibrio. Ancora oggi cammino zoppicando. Ho un buco nella caviglia. Quando mio padre è morto è stata la stessa cosa. Solo che la cicatrice era dentro di me. ‘Che è successo ad Adriano?’ È semplice. Ho un buco nella caviglia e uno nell’anima”. Quindi il ritorno definitivo in Brasile, più per riprendere a vivere che a giocare. Questa è la parabola di Adriano, un ragazzino diventato Imperatore, un Imperatore crollato sotto il peso della vita. Una parabola tutto sommato nemmeno troppo originale, per qualcuno forse scontata. E che lui stesso ha commentato in una bellissima lettera alla sua favela: “Il più grande spreco nel calcio: io. Sono ossessionato dallo spreco della mia vita. Sto bene così, in uno spreco frenetico. Non mi drogo. Non sono un criminale, ma ovviamente avrei potuto esserlo. Non mi piacciono le discoteche. Bevo perché non è facile essere una promessa che rimane in debito. Ed è ancora peggio alla mia età”. Spreco, rimpianto, delusione. Sono state molte le definizioni e le etichette che gli sono state appiccicate alla fine di una carriera che avrebbe potuto abbagliare più di Messi, Cristiano Ronaldo o Ronaldo il Fenomeno. Tanto più se applicate anche alla sua vita, frammentata e incompiuta nei valori, negli amori, nelle relazioni. Eppure uno studio americano di Umberson and Chen del 1994 ha dimostrato che il lutto paterno in figli adulti non si limita ad aumentare i disagi psicologici e fisici. Se elaborato correttamente può determinare effetti addirittura positivi: un crescente amore per la famiglia e gli amici, una maggiore considerazione di sé, la necessità di abbandonare le relazioni insoddisfacenti per abbracciare solo quelle davvero soddisfacenti, la capacità di superare la paura della morte vivendo pienamente ogni giorno. Dunque siamo sicuri che quando qualche social pubblica video o foto di Adriano in ciabatte e pantaloncini durante qualche libagione nella sua favela, lo si debba leggere come la conferma di una vita fallita? O non è forse la lenta e faticosa ricerca di quel percorso virtuoso, del superamento di un disagio attraverso un ritorno alle origini? Adriano, in quella lettera, racconta: “Facevamo il bagno in un pozzo alla fine del vicolo. Le piscine nelle favelas sono così. Quando c’è un caldo infernale, i bambini tirano fuori il secchio e si rinfrescano come possono. Ti dirò che ancora oggi preferisco questo, sai? Vado in piscina, al mare, cose del genere, per far finta di far parte dei quartieri benestanti. Ma sono molto felice di fare la doccia sul tetto, o di versarmi un secchio d'acqua in testa, come facciamo qui nella favela. Perché sono scappato qui e ancora ci torno spesso? Non per l'alcol, non per le donne e non per la droga. Ma per la libertà. L'unica cosa che cerco a Vila Cruzeiro è la pace. Qui vado in giro a piedi nudi e a torso nudo, solo con i pantaloncini. Gioco a domino, mi siedo sul marciapiede, ricordo le storie della mia infanzia, ascolto musica, ballo con i miei amici e dormo per terra”. Il demone forse è scomparso. Perché l’eterno ritorno alle radici ha sempre in sé un elemento di salvezza. L’alcool è ancora suo compagno di vita, ma non più come arma di autodistruzione. E chissà che presto non possa sciogliergli le catene con cui lo ha tenuto in ostaggio. Dell’Imperatore restano quelle corse liberatorie, quei dribbling a 100 all’ora e quei gol potenti e spettacolari. Ma Adriano, scomparendo dal mondo, ha trovato la pace con sé stesso. Ecco perché la sua partita di addio arriva dopo tanti anni dalla fine della sua attività. Occorreva attendere che il cerchio si chiudesse. “In ognuno di questi vicoli vedo mio padre. Qui sono molto rispettato. Qui c'è la mia storia. Qui ho imparato cos'è la comunità. Vila Cruzeiro non è il posto migliore del mondo. Vila Cruzeiro è il mio posto”

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Il Vallo di Adriano: la parabola dell'Imperatore

Alessandro Biolchi