Il Var tra rivoluzione e reazione

‘Rivoluzione’ è un termine coniato nel XVI secolo, in astronomia, per indicare il movimento di un corpo intorno ad un altro corpo che costituisca il suo centro di gravitazione e la cui posizione finale coincida con quella iniziale. In sostanza indica il giro completo di un corpo celeste in orbita rispetto a un altro corpo: la terra rispetto al sole, la luna rispetto alla terra e via dicendo. Solo nel secolo successivo fu mutuato dalla politologia per indicare un sovvertimento radicale dell’ordinamento di uno Stato allo scopo di ripristinare l’ordine naturale violato da un regime dispotico. E solo con la Rivoluzione Francese assunse il significato che noi oggi assegniamo comunemente a quel sostantivo: un mutamento drammatico e radicale che tende alla realizzazione di un nuovo ordinamento fondato sulla libertà e sulla felicità. Ma il tributo che la politologia concede all’astronomia non è puramente semantico, perché in effetti a ogni rivoluzione segue costantemente un moto di reazione in un percorso orbitale che tende a riprodurre fatalmente la posizione iniziale. Il che ovviamente non significa che la storia dell’uomo sia un’infinita sequenza di capitoli di un romanzo gattopardesco in cui tutto cambia per restare uguale a sé stesso, ma semplicemente che il termine rivoluzione porta in sé le stimmate della reazione in una sorta di applicazione del terzo principio della dinamica alle scienze sociali e in un percorso che non procede in linea retta, ma con movimento circolare o ellittico. E poiché anche il calcio è un fenomeno sociale, anche qui assistiamo regolarmente alla danza della diade rivoluzione/reazione in un’orbita che tende al punto di partenza. E l’introduzione della tecnologia nel suo mondo, attraverso il cosiddetto Var, ne è paradigma. In questa sede non affronteremo le questioni regolamentari connesse al suo utilizzo, materia già magistralmente trattata su queste pagine da Lorenzo Fontani, ma offriremo semplicemente un’analisi di tipo sociologico, opinabile per definizione, in relazione alla percezione che del Var ha l’opinione pubblica nelle varie fasi della sua breve storia. In altre parole, come è cambiata nella gente la fiducia/sfiducia nell’applicazione della tecnologia nel mondo del calcio? La sua introduzione nella stagione 2017/18 fu vissuta come un atto rivoluzionario e liberatorio, al termine di una lunga campagna d’opinione cominciata negli anni ’80 del secolo scorso, basata su un semplice principio logico: perché mai l’arbitro doveva restare l’unico soggetto coinvolto in una partita privo di un supporto tecnologico? Perché mai una prova evidente ed eclatante a tutti gli spettatori già al primo replay televisivo doveva essere sottratta proprio all’unico giudice deputato a emettere una sentenza sul campo? La rivoluzione fu salutata dunque con soddisfazione ed entusiasmo generale in quanto percepita come svolta epocale nella gestione del gioco più amato in Europa. Ma la sua applicazione iniziale fu informata alla prudenza, perché rispondeva a un mantra ben preciso: poiché le fattispecie regolamentari sono molteplici, occorre che il Var diventi supporto all’arbitro solo in quelle significative ed eclatanti. In altre parole, la tecnologia deve sanare gli errori o le sviste evidenti, quelle che incidono direttamente sul risultato, e null’altro. In modo che l’arbitro resti protagonista della direzione di gara potendo contare su un aiuto fondamentale nei momenti cruciali. Ma questa prima fase del Var, pur portando con sé significativi miglioramenti nella gestione delle partite, produsse una sorta di delusione nella frangia dei ‘rivoluzionari’ più fervidi, convinti delle magnifiche sorti e progressive della tecnologia applicata al calcio. Troppi episodi lasciati scivolare via perché etichettati come ‘errori non evidenti’, troppe fattispecie che finivano ancora nella zona grigia della discrezionalità producendo difformità di giudizio. Discrezionalità che si arricchiva, peraltro, di una nuova sacca di incomprensione e polemiche: quella relativa al varista di turno, chiamato a decidere, a sua discrezione, cosa fosse errore evidente da sanare e cosa no. La rivoluzione ebbe così un nuovo sommovimento e provocò una nuova fuga in avanti. La frase più gettonata divenne: “Ma perché non andare a rivedere quell’azione? Caro arbitro, almeno vai a rivederla: e se l’impressione del campo non viene spazzata via oltre ogni ragionevole dubbio dalle immagini tv, mantieni la decisione originale”. Argomento finalizzato a contrarre quanto più possibile quella discrezionalità che produce la melassa decisionale dove vale tutto e il suo contrario, attizzando teorie del complotto, faziosità e proteste senza soluzione di continuità. Ma cercando di preservare contestualmente la nobiltà del ruolo dell’arbitro come catalizzatore delle informazioni e finalizzatore delle decisioni. E così, progressivamente, la classe arbitrale cominciò a correggere il tiro per uniformarsi quanto più possibile al movimento d’opinione in quella che, d’altra parte, era fisiologica evoluzione e sedimentazione di uno strumento del tutto nuovo. Obiettivo? La ricerca dell’oggettività. Questa nuova fase ovviamente comportò l’utilizzo più metodico e stringente del Var, chiamato a vivisezionare tutto in ossequio all’esigenza di oggettività. E così ogni fallo di mano in area, a prescindere da qualsiasi ragionamento, diventava rigore . Ogni contatto in area, certificato dalle immagini, tra le gambe del difensore e dell’attaccante finito a terra diventavano rigore, a prescindere dall’intensità su cui si sarebbe dovuta applicare di nuovo la discrezionalità arbitrale. Ogni possibile fallo consumato all’origine di un’azione che avrebbe portato a un gol doveva essere individuato e punito, anche se avvenuto 30 o 40 secondi prima dell’esito finale. E via dicendo. E fu proprio questa interpretazione ‘oggettiva’ della tecnologia a scatenare i moti reazionari di alcuni allenatori, dirigenti e commentatori. Troppe interruzioni, eccessiva mania di segmentazione delle azioni a discapito della fluidità e naturalezza del gioco, decisioni ‘oggettive’ ma irrazionali che accomunavano fattispecie percepite come diverse per sfumature e struttura. Sino alle critiche più filosofiche relative alla realtà e alla sua interpretazione televisiva, visti come mondi inconciliabili perché ogni immagine rallentata e proposta da svariate inquadrature costruisce fatalmente una realtà diversa e distopica. Insomma, quello non era più calcio, per i reazionari. Ma una sua caricatura in stile Matrix. Argomenti nobilitati dalle considerazioni sul ruolo dell’arbitro, da molti ormai visto come mero burocrate chiamato a certificare decisioni prese altrove: “Ormai arbitra il Var, in una sala buia e lontana, non più l’arbitro in campo”. Oggettivizzazione come sinonimo di disumanizzazione, insomma. Come nel film ‘Metropolis’, come nell’arte refrattaria alla fiducia smodata nel progresso che rende gli uomini come macchine. E così la frase più gettonata divenne: “Il Var è la rovina del calcio, bisognerebbe eliminarlo”. Eccola l’orbita che accompagna il moto di rivoluzione verso la posizione iniziale attraverso la forza della reazione. Alla povera classe arbitrale non restò che prendere atto del mutato orientamento dell’opinione pubblica per cercare una mediazione in grado di smussare le critiche. E così la crisi del settimo anno comportò un nuovo aggiustamento nell’evoluzione dell’applicazione dello strumento tecnologico. Con l’evidente ritorno dell’umanizzazione, del ragionamento, in una parola della ‘discrezionalità’ arbitrale. Risultato? Beh, l’ultima giornata di campionato ne è un perfetto paradigma: falli di mano giudicati diversamente in base a ragionamenti differenti, fatti oggettivi lasciati all’orientamento del campo tra le proteste generali. E la percezione dell’inutilità della tecnologia perché applicata male o disapplicata in osservanza a protocolli ritenuti assurdi e anacronistici. Insomma, il tanto invocato ritorno alla discrezionalità arbitrale non piace più. Anzi, peggio. La tecnologia che supporta le decisioni discrezionali con i suoi fatali e umani errori diventa ancora più odiosa e insopportabile per masse di tifosi e tesserati che tornano a evocare complotti, decisioni forzate per produrre vittime e carnefici, e campionati falsati per la corsa ad ogni obiettivo possibile, dallo scudetto alla salvezza. Rivoluzione, reazione, controrivoluzione. E ora cosa dobbiamo aspettarci? Anche la Rivoluzione Francese ebbe una fase giacobina, una moderata e una reazionaria. Che poi portò all’Impero di Napoleone. Ma qui? Niente di così drammatico o significativo a livello sociale, certo. Ma forse servirebbe un aggiustamento culturale, prima ancora che regolamentare e ‘protocollare’. Perché in caso contrario le istituzioni arbitrali non potranno che seguitare a subire pressioni, critiche trancianti e offese ben al di là degli effettivi demeriti. Una possibile via di uscita ‘culturale’ l’ha offerta la fattispecie del fuorigioco. Oggi la tecnologia è in grado di coglierlo sempre, con precisione millimetrica. E la sua applicazione ha prodotto un mutamento culturale evidentissimo. Perché oggi la punta della scarpa che mette in offside un attaccante per 2 centimetri origina certo qualche malumore in chi ritiene illogico punire un giocatore solo perché porta il 45 di scarpe, quando in realtà non approfitta illegalmente in nessun modo della sua posizione ‘geografica’. E tuttavia oggi tutti parlano di sfortuna e non certo di preconcetti arbitrali. Al limite si discute sul ‘limes’, sul confine che occorrerebbe fissare e oltre al quale l’azione diventa illegale. Con la consapevolezza, però, che quali che siano i ‘limites’, esisterà sempre un fuorigioco di un centimetro, sia che si consideri il torso, il piede, il ginocchio o la tanto evocata ‘luce’ tra i corpi di difensore e attaccante. Dunque qui il dibattito è sereno, senza tensioni. Perché il fuorigioco è uguale per tutti e ha in sé il concetto di limite oggettivo, che può essere oltrepassato di 10 metri o di un centimetro. Ecco, si torna sempre lì, all’oggettività. Perché allora non ripartire da qui? Ciò che è oggettivo non può che mettere d’accordo tutti e contrarre le polemiche. E allora se un’azione non viene fermata subito per un sospetto fuorigioco in attesa di capire se sia foriera di un fatto significativo, si potrebbe pensare che quest’ultimo non sia semplicemente un gol ma anche un provvedimento disciplinare. Perché a Empoli il cosiddetto scempio arbitrale a Tomori è costato semplicemente un giallo, mica altro. È diventato per tutti un fatto grave solo perché era il secondo e dunque comportava l’espulsione. E allora si può tranquillamente decidere che così come un gol viene annullato ex post in base alla valutazione della tecnologia, anche il cartellino che porta all’espulsione può essere annullato ex post in base allo stesso meccanismo. Stessa cosa per i calci d’angolo: a San Siro il cosiddetto scempio arbitrale ha prodotto solo un corner regalato, mica altro. E ne abbiamo visti a decine, a centinaia di corner assegnati quando non c’erano o non assegnati quando c’erano. È diventato un fatto grave solo perché l’Inter da quel corner ha segnato. E allora si può tranquillamente decidere che in quel caso si può valutare ex post se il corner ci fosse o no, e agire di conseguenza. E deve valere per tutti, anche per l’Inter a Leverkusen o all’Atalanta in Supercoppa contro l’Inter. Senza contare che nessuno sarà mai in grado di stabilire cosa sarebbe accaduto in conseguenza di ‘quel corner’ non assegnato ma che il Var avrebbe potuto facilmente concedere. Il fallo a metà campo di Morata su Asllani nel derby di Supercoppa e non rilevato dall’arbitro ha ‘regalato’ al Milan una punizione, mica altro. Ma siccome il Milan da lì ha riaperto la partita, allora è diventato un errore grave. E anche qui si può decidere di rivedere ex post, come in effetti accadeva in passato. Purché poi i reazionari non tornino a lamentarsi per la vivisezione di troppe azioni, meccanismo contrario alla fluidità del gioco e al bel calcio di una volta. Ecco, che cos’è oggettivo? Lo si decida e lo si applichi. Oppure si decida cosa sia accettabile in termini di errore e da lì in poi si smetta di protestare: un corner, una rimessa laterale o una punizione a metà campo assegnati o no in modo errato sono accettabili? L’azione successiva è altro rispetto all’errore, o conseguenza diretta? Si decida e si applichi. E via dicendo per i falli di mano: vogliamo dare rigore sempre? Facciamolo, come per il fuorigioco che c’è sempre anche se di un millimetro. Forse al decimo anno di rigori assegnati automaticamente si comincerà a parlare di sfortuna per quel tocco di braccio e non di discrezionalità pelosa degli arbitri. Lo sgambetto in area c’è? La differenza tra rigore e rigorino, le proteste per la debole intensità “che possiamo valutare solo noi che abbiamo giocato a calcio”, sembrano tutte argomentazioni funzionali ad altro. Ma se esistesse lo scatto culturale, si potrebbe arrivare a parlare solo di sfortuna: movimento congruo, imprudenza, tutti concetti aleatori che compongono l’arcipelago della discrezionalità. O la si accetta o la si comprime inseguendo l’oggettività. Non c’è una terza via. Forse esagerando, ma la strada dell’oggettività era stata intrapresa. Poi ha prevalso la nostalgia per quel calcio antico, depositario per definizione della poesia romantica che affonda sempre le radici nel passato. Bene, anche questa è una scelta ‘culturale’. Purché la si accetti in toto, senza alzare polveroni a ripetizione. Altrimenti il sospetto che il calcio delle polemiche convenga a molti, se non a tutti, diventerà certezza.

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Alessandro Biolchi