Napoli-Inter per lo scudetto: una serata da Oscar

"Sono nato a Napoli, ci ho vissuto fino a 6 anni, abitavamo in una casa bombardata nel rione Montesanto, tra i Quartieri Spagnoli e Piazza Dante. Nel 1956 ci trasferimmo a Milano e ripenso ancora, ahimé, ai cartelli con le scritte 'non si affitta ai meridionali”, i bar dove non facevano entrare quelli del Sud. E a scuola, alle elementari, non andava molto meglio per un piccolo scugnizzo come me. Tifavo Napoli, ma a furia di botte mi costrinsero a cambiare squadra e scegliere tra le due milanesi: optai per l'Inter, attratto da quelle righe azzurre nella maglia che tanto mi ricordavano la mia città". Se non fosse per la fortunata estrazione borghese - il padre era avvocato - l'impatto con schighera di Gabriele Salvatores assomiglierebbe più a uno di quei racconti che Giovanni Testori tracciò per il suo Ponte della Ghisolfa, il 'gancio' letterario di Rocco e suoi fratelli, girato in bianco e nero perché era così che, secondo Luchino Visconti, Milano appariva agli occhi degli immigrati provenienti dal meridione. Non era la famiglia Parondi e non fu, insomma, un ex pugile della palestra di via Bellezza a salvare Gabriele da un'allettante carriera nella Mala, ma il teatro: l'ancora di salvezza per un ribelle studente universitario negli Anni di piombo dell'estremismo politico e del buco nero dell'eroina . Il Teatro dell'Elfo, l'incontro con Silvio Orlando, Paolo Rossi e tutta la banda di Kamikazen; gli amici di sempre Diego Abatantuono, Fabrizio Bentivoglio, Claudio Bisio e il passaggio definitivo alla pellicola con la cosiddetta trilogia della fuga, consacrata dall'Oscar al miglior film straniero per gli scalcagnati 'Argonauti' di Mediterraneo: un'Armata Brancaleone naufragata nel Mare Nostrum della Seconda Guerra Mondiale e sbarcata come d'incanto a Los Angeles, alla conquista del Vello d'Oro... del Cinema. E il calcio perennemente all'orizzonte: l'epica sfida Italia-Marocco del "tutto a posto, si arriva ai dieci" di Marrakech Express ; l'altrettanto memorabile partitella ambientata nel 1941 sull'isoletta greca di Kastellorizo interrotta sul più bello dall'atterraggio d'emergenza del tenente siculo La Rosa, planato con l'apparecchio alle spalle dell'ignaro sergente Lo Russo, certo di parare il rigore, un po' meno fiducioso nelle capacità dei suoi soldati: "Chi vive sperando muore cagando... E noi dovremmo spezzare le reni alla Grecia con questi quattro deficienti qua?". Nel frattempo, in Russia... l'ufficiale Giuseppe Prisco - milanesissimo, ma di sangue napoletano anche lui: il padre era di Torre Annunziata - attraversava a piedi la steppa innevata, a temperature che ballavano tra i -20 e i -40 sottozero, tra i pochissimi sopravvissuti alla folle "operazione Barbarossa" lanciata dalla Germania nazista e appoggiata dall'alleato Benito Mussolini, ricopensato poi con la medaglia d'argento al valor militare. Il totem interista - così devoto a Pepìn Meazza che fu per lui, alpino, che si arruolò 19enne nelle Penne Nere - morirà "di gioia" per un infarto soltanto 60 anni dopo la 'trasferta' in Unione Sovietica, con l'Inter prima in classifica e un gol dell'altro giocatore che amò di più in oltre mezzo secolo di militanza nerazzurra, Ronaldo, e le 'odiate' Milan e Juve fuori dalla zona Champions League. Una contingenza che, evidentemente, lo persuase che non ci fosse momento migliore per salutare. E aveva ragione lui: perché da lì a qualche mese sarebbe mancato per il dolore, se non il 5 maggio l'estate successiva, per l'addio del suo adorato brasiliano. E semmai fosse scampato al dispiacere, non avrebbe certamente retto di vedere Ronie con la maglia dell'altra squadra... di Milano. Ah, quasi dimenticavano: la sua prima partita allo stadio - all'Arena Civica, correva l'anno 1931 - fu un 'tennistico' Inter-Napoli 6-1. Mentre il mondo cade a pezzi... nei cinema del Ventennio - a corredo della propaganda purissima dell'Istituto Luce - si afferma il sottogenere dei 'Telefoni Bianchi', che richiama lo stile Déco dell'epoca e le ambientazioni a 5 stelle delle commedie di Frank Capra, lanciando dei motivetti melodici come Parlami d’amore Mariù e la meno famosa Amore e tifo, entrambe cantate da Vittorio De Sica, super tifoso del Napoli. "Se per il calcio ho una passione fatal mi domando: cosa c'è di mal? Elisabetta, la mia diletta metà, grida invece così tutto il dì: la tua mania per il pallon sarà la mia disperazion. Quando un giorno terminato tutto sarà e finito il campionato ogni lite finirà. Lo sport o il cuore, tifo o amore: decidi pure tu! Elisabetta con la Gazzetta ce l'ha e allo stadio mai mi vuol mandar...". Al crollo del Regime fascista, anche il bluff di questi filmettini fotoromanzati si rivelerà lo specchio dell'isolamento in cui la dittatura aveva confinato il Paese e lo stesso De Sica sarà 'libero' di gettare le basi del Neorealismo, premiato quattro volte con l'Oscar per Sciuscià, Ladri di biciclette, Ieri, oggi, domani, Il giardino dei Finzi Contini, pigmalione di Sophia Loren nel ruolo che la consegnerà alla leggenda con La ciociara, superando la concorrenza dell'Audrey Hepburn di Colazione da Tiffany. E pensare che solo una decina d'anni prima di ricevere la statuetta era semplicemente Sofia Lazzaro e sulla locandina di Milano Milardaria non compaia nemmeno perché era una figurante, la commessa di un bar, ma resta una perla: è la storia di un fotografo milanese e un barbiere napoletano che scommettono moglie e bottega sul risultato di Napoli-Inter . La Loren è stata l'ultima nostra attrice a vincere l'Oscar. L'ultima in nomination fu Valentina Cortese per Effetto Notte di François Truffaut nel 1975 , battuta da Ingrid Bergman , mamma di Isabella Rossellini. Che, se sarà premiata all'alba di lunedì come migliore attrice non protagonista per la sua interpretazione di suor Agnes in Conclave, contribuirà a stabilire un record: diventeranno le prime madre e figlia a ricevere la statuina. Ma c'è di più: le prime apparizioni in video di Isabella - che è anche figlia di Roberto, l'altro padre del Neorealismo - risalgono alla mitica trasmissione L'altra domenica, condotta e ideata da Renzo Arbore e Maurizio Barendson . Un programma rivoluzionario della neonata Raidue con un improbabile Benigni nelle vesti di critico cinematografico che alternava sport e spettacolo, in cui la ragazza - in collegamento da New York - proponeva le nuove tendenze a stelle e strisce come la diffusione del wrestling femminile. Sposerà Martin Scorsese, ma il grande amore della sua vita rimarrà David Lynch, che la rese immortale con l'iconica Miss Dorothy Vallens di Velluto blu. Celebre anche la sua liason con lo scrittore Luciano De Crescenzo, un altro fedelissimo del ciucciariello. "Avevo nove anni - raccontava - quando mio padre mi portò allo stadio Ascalesi a vedere Napoli-Ambrosiana Inter. Perdemmo all'ultimo minuto, all'ultimo secondo: iniziai a piangere disperatamente e in quel momento realizzai di amare follemente l'azzurro". "Dicemmo l'altra volta 'l'Inter chiama, Napoli risponde', oggi il Napoli ha chiamato, ma l'Inter non ha risposto...". Il giornalista Luigi Necco era uno di quei personaggi che sembrava uscito da un romanzo di De Crescenzo, l'avremmo visto bene a filosofeggiare con il suo Bellavista, lui che distingueva l'umanità in "uomini d'amore" e "uomini di libertà", che erano i milanesi come il dottor Cazzaniga, uno che malgrado fosse il direttore del personale dell'Alfasud voleva comunque andare al lavoro in perfetto orario . Diceva Bellavista: "La doccia è milanese perché ci si lava meglio, consuma meno acqua e fa perdere meno tempo. Il bagno invece è napoletano: un incontro con i pensieri". Pensieri poetici, il pane quotidiano di uno degli amici del professore: "San Genna', non ti crucciare, tu lo sai che ti voglio bene. Ma 'na finta 'e Maradona squaglia 'o sanghe dint' 'e vvene!". Il linguaggio espressivo e le metafore che Necco utilizzava per chiudere il suo più classico dei servizi a 90° s'inserivano perfettamente nel contesto culturale e sociale di quegli anni, a metà tra Maradona e Massimo Troisi . Perché la sua era poesia applicata al calcio, sublimata dall'arte tutta partenopea di condensare gestualità, sberleffo e scaramanzia, non per niente era nato tra i vicoli del rione Sanità, come Totò. Necco, quel vocione inconfondibile, si circondava di tifosi, salutava con la mano, nessuno degli inviati si congedava dallo studio e dal conduttore Paolo Valenti - che ammiccava, sardonico - in quella maniera così teatrale. A volte esagerava, ma sempre bonariamente, mimando anche il numero dei gol, e ne indicò due quel pomeriggio del 22 ottobre 1989, con il Napoli che al San Paolo aveva battuto 2-0 l'Inter campione d'Italia e si lanciava alla conquista dello scudetto , trovando una spalla d'eccezione in questo continuo giuoco delle parti: "Maradona, da questa distanza si vede lo scudetto?". "No, ancora no, è notte fonda, la luce di quel giorno deve ancora arrivare...". Era la stagione di Nuovo Cinema Paradiso, dell'Oscar a Peppuccio Tornatore, del piccolo Totò Cascio e del giovane Salvatore di Marco Leonardi, che sarà Diego nel Maradona-La mano de Dios di Marco Risi. La mano che Paolo Sorrentino impugnerà per dirigere la sua opera più intima e dolorosa. Fabietto: "Papà, secondo te arriva Maradona?" Saverio: "Figurati se quello da Barcellona viene 'int'a 'sto cesso" In fondo, perché il calciatore più forte del mondo avrebbe dovuto scegliere di venire proprio a Napoli? Potremmo azzardare un'ipotesi, alla Troisi, che diceva di fare i film soltanto per suggerire ai tifosi azzurri dei titoli 'pronti' per l'uso: Maradona scelse Napoli... cosicché un giorno, all'improvviso, la città avrebbe potuto intitolare il suo stadio al più grande giocatore della storia del calcio. Un atto d'amore reciproco. Lo stesso amore che Sorrentino ha instillato nella sua mano di Dio, ispirato da Le vie del Signore sono finite e dal debito - inestimabile - verso la figura provvidenziale di Diego: "Non c'è Fellini, stavolta, non c'è altro, solo Troisi dall'inizio alla fine. E Maradona, che a me ha salvato la vita". Rimase orfano, a 16 anni, di entrambi i genitori, avvelenati nel sonno dalle esalazioni di una stufa nella casetta di famiglia a Roccaraso. E se quel maledetto pomeriggio del 1987 - a poche settimane dal primo scudetto - il padre non gli avesse concesso di andare a Empoli per vedere Maradona e l'avesse portato con loro in montagna, oggi parleremmo di un'altro film. È la grande bellezza del cinema. E del calcio.

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Alfredo Corallo