Ferruccio Novo, l'uomo che ha costruito il Grande Torino

In via Paolo Sacchi numero 16 a Torino, stretta tra Corso Vittorio Emanuele II e via Pastrengo, là dove oggi si trova una caffetteria, sorgeva negli anni Venti una rinomata azienda di articoli tecnici e manifatture, cinghie, attrezzi e ricambi per l’agricoltura nata nel 1924: la ‘Antonio Novo’. Vi si potevano trovare gli eccezionali ed economici Crivelli per Trebbiatrici Perfezionati della ‘Graepel’, i rinomati cinghioni per trasmissioni in in pelo di cammello artigianalmente prodotti dalla Premiata Ditta, ma anche barilotti di pregiato olio ‘Electric’ per Motori Elettrici di macchine leggere e grande velocità. Quando il titolare passò la mano, a rilevare la guida dell’impresa furono i due figli Mario e Ferruccio più piccolo di otto anni, i quali decisero di concentrare l’attività sugli accessori di cuoio per l’industria . Mario col passare degli anni finì ad occuparsi a tempo pieno dell’attività di famiglia, Ferruccio invece decise di correre sempre più dietro al primo grande amore della sua vita: il calcio. Ferruccio Novo già da ragazzino aveva provato a giocare al football come difensore, tanto che nel 1913 - all’età di sedici anni - era riuscito a entrare a far parte delle giovanili del Torino come difensore. La passione gli era scoppiata studiando, come molti giovani virgulti delle famiglie benestanti, al Collegio San Giuseppe del capoluogo piemontese, inaugurato nel 1875 sulle radici dell’ideale di istruzione desiderato e realizzato in città da Re Carlo Felice quasi mezzo secolo prima, e ben presto divenuto un Istituto all’avanguardia che già nel 1907 si era dotato di un ‘impianto per il cinematografo’ a pro degli studenti. Ferruccio non era tuttavia mai riuscito ad andare oltre la squadra riserve, ammettendo suo malgrado di essere ‘una schiappa’ col pallone tra i piedi. Ma se non si può entrare dalla porta, si può pur sempre rientrare da una finestra. E siccome i granata erano il suo chiodo fisso, Ferruccio diventò prima un grande sostenitore della squadra, poi ne divenne consigliere e infine Presidente. Nell’estate del 1939 l’ingegner Giovan Battista Cuniberti, presidente uscente del quadriennio iniziato nel 1935 dopo una breve reggenza del vice podestà Euclide Silvestri, investì Ferruccio Novo del ruolo di nuova guida della gloriosa società AC Torino, ancora fresca di vittoria della sua prima coppa Italia, ottenuta l’11 giugno 1936 superando in finale l’Alessandria per 5-1 allo stadio Luigi Ferraris di Genova. Cuniberti era stato un buon presidente, ma non era mai riuscito ad andare oltre quel lusinghiero ma isolato successo; impegno che solennemente promise di assolvere Ferruccio Novo incaricandosi di prendere in mano le sorti del sodalizio granata, oscurato dalle vittorie dei cugini e rivali della Juventus. Il primo problema dinanzi al quale si trovò oggettivamente Ferruccio Novo fu quello di valutare il parco dei giocatori a disposizione della società. Nelle prime stagioni si accontentò di smontare l’esistente e pian piano rimontare i pezzi con nuovi e ponderati innesti di potenziali campioni. Nel corso del primo biennio la squadra venne rivoluzionata. Della rosa del 1938 rimasero soltanto il portiere Olivieri; i difensori Bussi e Ferrini; i centrocampisti Allasio, Baldi III, Cadario, Gallea, Petron; l’attaccante Raf Vallone . L’ossatura del 1940-41, cominciò a delineare quella della ‘rosa’ del 1941-42, anno in cui vennero riconfermati il portiere Olivieri e Cavalli; i difensori Bussi, Ferrini, Piacentini; i centrocampisti Baldi III, Cadario, Gallea, Petron; gli attaccanti Ussello e Ossola . A questi si aggiunsero nuovi acquisti nel reparto avanzato come Ferraris II, Gabetto e Menti III. Ma fu alla fine di quel torneo che Ferruccio Novo compì il suo capolavoro, riuscendo a soffiare proprio alla Juventus, che stava tirando sul prezzo, le due mezzali del Venezia Ezio Loik e Valentino Mazzola per 1.200.000 lire. E nel 1942-43 i granata tornarono a vincere lo scudetto, il secondo della loro storia dopo quello conquistato nel 1927-28 da Baloncieri e Libonatti allo stadio Filadelfia, guidati dall’italo-austriaco Anton ‘Tony’ Cargnelli, sotto la presidenza di Enrico Marone Cinzano. In verità il Torino aveva vinto anche l’anno precedente, ma il titolo era stato revocato per una presunta corruzione del terzino della Juventus Luigi Allemandi. A distanza di quattordici anni, dunque, la sponda granata della città tornò a festeggiare. Grazie alle intuizioni di Ferruccio Novo, capace di accaparrarsi sul mercato interpreti di qualità assoluta. Nella ‘rosa’ portieri Bodoira e Cavalli; i difensori Ferrini e Piacentini; i centrocampisti Baldi III, Gallea, Ellena ; gli attaccanti Ferraris II, Gabetto, Menti II, Ossola e gli azzeccatissimi nuovi arrivi Cassano , Grezar , Loik e Valentino Mazzola . Nelle stagioni 1943-44 e 1944-45 il campionato italiano di calcio non venne disputato, ma fu sospeso a causa della II Guerra Mondiale. Si tornò in campo fra le macerie e la voglia di ricominciare con la Divisione Nazionale del 1945-46. Sempre con Ferruccio Novo alla Presidenza dei granata. Novo aveva avuto il tempo, prima del conflitto, di studiare molto da vicino la capacità sportivo-imprenditoriale di Edoardo Agnelli durante la prima metà degli anni ’30, quando era alla presidenza della Juventus. Per questo nel primo triennio aveva messo mano alla società ristrutturandola come si trattasse di una vera e propria azienda commerciale. Aveva saputo circondarsi di brillanti collaboratori e ottimi amici. A cominciare dall’amico Roberto Copernico, commerciante in abbigliamento nominato dirigente e fra i fautori della scelta tecnica di passare dal metodo al sistema, fino al tecnico magiaro Ernő Egri Erbstein, già validissimo ex calciatore, di origine ebraica ed ex agente di borsa. E poi c’era anche un nutrito numero di ‘esterni', come Vittorio Pozzo, CT due volte campione del mondo, con il quale non aveva un rapporto sempre idilliaco, ma che amava i suoi stessi colori e che gli dava utili dritte in campagna acquisti. E non era l’unico. Ossola - per esempio - arrivò grazie alla segnalazione di un ex giocatore, Antonio Janni - 322 partite a cavallo tra il 1920 e il 1937 - diventato allenatore del Varese. Una parolina scambiata con il suo giocatore Ellena lo fece arrivare a Menti II della Fiorentina. All’Inter strappò il campione del mondo Ferraris e la Juventus - non si sa come - cedette a cuor leggero Borel Bodoira e Gabetto. Quest’ultimo con i bianconeri aveva già vinto uno scudetto, ma sull’altra sponda del Po lo giudicarono ‘arrivato’ a venticinque anni e lo lasciarono partire. Operazione che forse sarebbe convenuta con Borel, piuttosto malandato, che tuttavia si applicò con Erbstein a spiegare agli altri il sistema ‘britannico’, in barba anche a Vittorio Pozzo e ai suoi ‘credo’. Alla fine della Grande Guerra, la dirigenza Novo riprese il quadernino degli appunti compilato attentamente nel corso del Campionato Bellico, nel quale in via ufficiosa delle individualità si erano messe in mostra un po’ ovunque fra bombardamenti e distruzioni. La squadra venne rimessa in piedi con il tricolore sulla maglia in quanto ultima società ad aver vinto un campionato regolare. Ad Alfredo Bodoira, come portiere, venne affiancato nel ruolo il ‘gatto magico’ Valerio Bacigalupo, dai riflessi felini. Al difensore Piacentini andarono a fare compagnia in reparto tre nuovi acquisti: Ballarin, Maroso e Rigamonti. Sulla linea dei centrocampisti furono presentati Loik, Grezar e i due ‘nuovi’ Castigliano e Santagiuliana. Sei invece le bocche di fuoco, per assicurare medie realizzative senza confronto: Ferraris II, Gabetto, Valentino Mazzola, Ossola, più Guaraldo e Zecca, in attesa del ritorno di Menti II dal Milan l’anno successivo. In quella squadra Mazzola è il capitano ed è considerato da molti ancora oggi come il più completo campione italiano di ogni tempo. In via Paolo Sacchi numero 16 a Torino, stretta tra Corso Vittorio Emanuele II e via Pastrengo, nella sede della ‘Antonio Novo’, Mario amministrava con il vento in poppa, tanto da aprire due nuove agenzie - una a Mantova e una ad Alessandria - e passare indenne attraverso gli anni duri del fascismo. Riuscendo prima a rendere l’azienda esclusivista per l’Italia dei prodotti GoodYear e poi a trarre vantaggi dall’autarchia che valorizzò i ‘vantaggi italici’ delle trebbiatrici. Della fallita precedente esperienza di babbo Antonio e mamma Ernesta Biroli, che nel 1894 avevano pensato di investire in una società per la confezione di guanti, non c’era più neppure il ricordo. Ferruccio, che nulla aveva potuto per salvare Erbstein prima dalla fuga a causa delle leggi razziali e poi dall’internamento in un campo di prigionia, alla fine delle ostilità riuscì a fare rientrare in Italia il vecchio tecnico e amico innovatore che aveva introdotto il riscaldamento pre-partita, il controllo dell’alimentazione per i giocatori e la cura psicologica del ‘clima spogliatoio’. Il Torino era pronto a ripartire dal suo secondo titolo precedente la guerra mondiale, ma nessuno avrebbe mai immaginato che la rivoluzione tecnica e dirigenziale avviata e completata da Ferruccio Novo avrebbe dato vita a una squadra perfetta, devastante e assoluta, capace di vincere quattro scudetti consecutivi forte di una superiorità schiacciante su tutta la concorrenza, letteralmente rasa al suolo fino a un tragico pomeriggio in cui il destino decise di spazzarla via. Il Torino vinse senza avversari anche i campionati dal 1945-46 al 1947-48. Quando le cose si complicavano, i granata, diventati per tutti il ‘Grande Torino’ abbandonavano il ritmo compassato della prima parte di gara e - mentre Valentino Mazzola si rimboccava le maniche della maglietta, quasi a voler dare il segnale di carica ai compagni - partivano a tutta forza per una quindicina di minuti segnando reti a valanga. Il ‘quarto d’ora granata’ divenne qualcosa di mitico. E i tifosi presero a salutarlo con tre squilli di tromba dagli spalti dell’Olimpico, richiamando la ‘Carica del Filadelfia’. Ferruccio Novo aveva costruito, in tempo di pace, una macchina da guerra calcistica… che a quattro giornate dalla fine del campionato 1948-49 si ritrovò con l’ennesimo scudetto - il quinto consecutivo - in tasca con ben quattro giornate di anticipo. Solo che quella stagione non fu felice come avrebbe dovuto, diventò invece tristemente nota per colpa del fato. Poiché fini in anticipo e nel modo peggiore, quando l’aereo che stava ripostando a casa i granata dal Portogallo andò a schiantarsi contro la collina di Superga. Finì così, in un boato, la leggenda del ‘Grande Torino’, che in una struggente poesia lo scrittore Giovanni Arpino definì “rosso come il sangue e forte come il Barbera”. Quella squadra, la sola in Italia a spostarsi con un pullman della società facilmente riconoscibile , quella volta era stata costretta a volare per tornare a casa, in un Paese ancora devastato e umiliato dai postumi della guerra. Ritornava da Lisbona, dove era andata a omaggiare in una amichevole il capitano lusitano Francisco Ferreira. Ferreira è anche in difficoltà economiche, la partita ha duplice finalità, rendergli onore e dargli una mano. Dalle rispettive federazioni l’assenso a disputarla fu concesso per il 3 maggio 1949 e finchè toccò al campo parlare tutto andò bene: all’Estadio Nacional finì 4-3 per i portoghesi, che poterono così festeggiare davanti a 40mila persone e ringraziare il Torino di aver partecipato a un evento indimenticabile. I granata avevano fatto la loro parte, senza per la verità spremersi più di tanto. Ossola, Bongiorni e Menti II si erano opposti alla doppietta di Melão e alle realizzazioni di Arsenio e Rogerio. Il giorno dopo, mercoledì 4 maggio, tra baci e abbracci il Torino si preparò al rientro e alle 9.40 decollò dall’aeroporto di Lisbona imbarcandosi su un trimotore FIAT G.212 delle AvioLinee Italiane, registrato come I-ELCE. L’aereo fece uno scalo a Barcellona e ripartì alle 14.50. Il comandante Pierluigi Meroni si sincerò delle condizioni sulla tratta. Ma i problemi incominciarono nel corso del viaggio, il meteo su Torino iniziò a peggiorare. Nubi a contatto col suolo, rovesci di pioggia, forti raffiche di libeccio e visibilità orizzontale notevolmente ridotta, fino a 40 metri. Intanto la nebbia aveva avvolto Torino e la collina di Superga, uno dei colli più alti del capoluogo, a una decina di chilometri dalla città, là dove è edificata la settecentesca Real Basilica. I giocatori, i loro accompagnatori, i dirigenti, i giornalisti a bordo si sentirono sballottare per aria, vivendo momenti di grande tensione. Non facevano parte del gruppo il difensore Tomà, il secondo portiere Gandolfo, il giovane Giuliano, rimasti a casa insieme al presidente Ferruccio Novo, indisposto, che attendevano il rientro dei giocatori dalla trasferta. Quando apparve dalle nuvole, l’aereo si ritrovò proprio di fronte alla collina forse ritenendo invece di essere già allineato alla pista di atterraggio dell’aeroporto. Non vi fu tempo di tentare una virata. E il velivolo andò così a schiantarsi contro il muraglione del terrapieno posteriore della basilica. Delle trentuno persone a bordo, nessun superstite. Quattro membri dell’equipaggio, diciotto calciatori e poi accompagnatori, tecnici e giornalisti. Morirono tutti. Finì così la storia del Grande Torino, che mutilò per sempre il calcio italiano e internazionale, come se a un puzzle bellissimo il destino maledetto avesse deciso di sottrarre un pezzo. Il più prezioso. Il Grande Torino invincibile, che segnava tre gol a partita di media, che per ottantotto gare a referto era rimasto imbattuto in casa, che aveva portato più giocatori in nazionale, era stato fermato dalla morte. La macchina perfetta costruita da Ferruccio Novo con sapienza e pazienza era caduta nel vuoto della nebbia torinese, contro una montagna, proprio dove i torinesi al contrario invocavano protezione. Fu un evento traumatizzante che subito raggiunse i quattro angoli del pianeta e venne rilanciato dalla stampa di tutto il mondo. Nelle orecchie della torre di controllo era rimasto quell’ultimo messaggio del pilota Meroni: “Quota 2.000 metri. QDM su Pino, poi tagliamo su Superga”. Poi, il disastro. E il tentativo di capire. Forse il vento di traverso, forse un errore sul sentiero di discesa, forse la nebbia o un malfunzionamento dell’altimetro. Ma quel trimotore era a seicento metri di quota e non a duemila. E alla virata l’impatto a 180 km/h non lasciò scampo a nessuno. Ferruccio Novo, sopravvissuto alla sua creatura, non superò mai quel dolore. Il Grande Torino e tre quarti della Nazionale Azzurra erano svanito per sempre e senza un perché. In molti si offrirono di aiutarlo. Lo scudetto venne comunque assegnato al Torino, ma fu la gioia più amara. Novo provò forse di malavoglia a ricostruire la squadra, senza più i suoi ragazzi colti come fiori di campo a uno a uno: Aldo e Dino Ballarin, Bacigalupo, Rigamonti, Castigliano, Gabetto, Grezar, Loik, Ossola, Valentino Mazzola… e anche Erbstein e tutti gli altri… ma gi risultò impossibile. E nel 1953 si dimise da Presidente. Scriverà Giorgio Tosatti, figlio di Renato, uno dei giornalisti scomparsi con il Grande Torino a Superga, “La città era tutta per strada quel giorno: nessuno era voluto restare in casa mentre passava il Torino. Fabbriche, uffici, negozi serrati. Gente e bandiere da tutta Italia in un pellegrinaggio d’affetto. Lunghissime ore di strazio: una via crucis di strada in strada, dietro quell’interminabile colonna di fiori e di morti. La città era muta e spenta e respirava dolore. Non vedrò più una folla così immensa e quieta, non vedrò più una città soffrire come soffrì quel giorno Torino”. In via Paolo Sacchi numero 16 a Torino, stretta tra Corso Vittorio Emanuele II e via Pastrengo, là dove oggi si trova una caffetteria, sorgeva negli anni Venti la Snc Antonio Novo, nata sulle ceneri di una fallita fabbrica di guanti. Si occupava di commercializzazione di articoli tecnici e parti meccaniche, accessori e oli lubrificanti. La crearono due fratelli. Mario la fece diventare grande. Ferruccio la lasciò per fare diventare grande il Torino, nella parabola calcistica più bella e amara della storia.

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Ferruccio Novo, l'uomo che ha costruito il Grande Torino

Lucio Rizzica