Tutta la magia artistica delle sfide tra Roma e Inter

L’arte ha mille forme. E la sua morfologia traduce il pensiero in atto creativo trasformando una visione del mondo in linguaggio empirico, conferendogli spessore, cifra estetica e valenza simbolica. Come in quel 26 Ottobre 2005, trentesimo minuto di Inter-Roma a San Siro: Francesco Totti cattura un pallone vagante a centrocampo e cerca un varco sul centro-sinistra del fronte d’attacco. Vince un paio di contrasti e si accentra verso il limite dell’area, mentre la difesa nerazzurra si ricompone nelle marcature lasciandogli tuttavia qualche metro di libertà. Non ci sono corridoi utili per illuminare la giocata di qualche compagno, ma la porta di Julio Cesar offre la sua silhouette laggiù, 20 metri oltre lo sguardo. Tutti si aspettano la conclusione forte, cieca e potente. Ma l’atto creativo segue i sentieri impervi del genio. Totti nota che il portiere è uscito di qualche metro per rimpicciolire il suo orizzonte e in un istante cambia dimensione: accarezza la parte inferiore della sfera incollata ai suoi piedi e disegna una parabola perfetta verso la gioia. Armonia, proporzione, geometria e tempo: quello che si contrae nella scintilla dell’idea e che si dilata nel viaggio di un’emozione. È arte classica, apollinea, che tende alla bellezza ideale. Senza sommovimenti incontrollabili delle passioni, ma con perfetta progressione che richiede il piacere dell’attesa e l’appagamento dei sensi nella simmetria della natura. O come quel 5 Gennaio 1997, trentanovesimo minuto di Inter-Roma, sempre a San Siro: Ganz recupera palla sul vertice dell’area giallorossa e prova a sorprendere Sterchele con un tiro improvviso, ma il portiere c’è e chiude la traiettoria respingendo come può. La palla rimbalza e si alza virando sulla destra del fronte d’attacco interista, dando l’impressione di voler terminare la sua corsa verso la bandierina. Youri Djorkaeff è ormai quasi scavalcato da quella bizzarra parabola ma rinuncia alla tentazione di seguirne lo stanco andamento per addomesticare la palla e renderla di nuovo giocabile con un cross o un passaggio a ritroso. E in un attimo comprende che esiste un solo modo per forzarne il destino: prende slancio verso una sorprendente elevazione e trasforma il suo corpo in una catapulta cogliendo l’appuntamento in una rovesciata potente e diagonale che disegna una retta leggermente arcuata verso l’angolo opposto. È la meraviglia del barocco, che frusta i sensi sorprendendoli con la sua estetica deflagrante, ma è anche il surrealista rovesciamento della logica che fonde gli orologi di Dalì innalzando la dimensione del subconscio, o che frantuma l’omologazione in una versione calcistica della Golconda di Magritte. Due gesti, due attimi, due forme d’arte che non sono fini a sé stesse, ma che sono compendio e paradigma di una sfida che ha spesso plasmato la razionalità in bellezza e l’istinto in estasi, tanto da indurre anche apparenti comprimari a uniformarsi: basti pensare alla rovesciata di Garlini del 1987 o alla devastante discesa di Holebas nel 2014, talenti destinati a lasciare segni impercettibili nella storia dei due club, ma capaci di armonizzarsi alle vette estetiche di questo scenario. Là dentro, infatti, sono riassunti tutti i riflessi di una bellezza sottratta al tempo: Pruzzo e Altobelli, Conti e Beccalossi, l’anima teutonica di Voeller e Mattheus, la classe bifronte di Dzeko, Mkhitaryan e Nainggolan. E la circostanza che Totti e Djorkaeff abbiano confezionato le loro perle immortali a San Siro non significa nulla, perché l’arte sfugge alle frontiere del mondo fisico e diventa motore immobile di un romanzo che vive di sogni: Roma e Inter negli ultimi 50 anni si sono sfidate 125 volte tra campionato, Coppa Italia, Supercoppa e Coppa Uefa. E in 71 di queste partite hanno segnato almeno 3 gol. Di più: nel 22% dei casi hanno segnato almeno 5 gol, talvolta mostrando il volto di un vistoso e temporaneo squilibrio, talvolta vestendo di meraviglia l’apparente infinita alternanza di emozioni che trascendono il risultato. Come il quel 4-5 dell’Olimpico del Maggio 1999: Zeman contro Hodgson, Totti-Delvecchio-Di Biagio-Di Francesco contro Ronaldo-Zamorano-Baggio e Simeone. Un’orgia di talento rovesciata in un campo da calcio senza vincoli o prudenti compressioni tattiche, uno spettacolo che relega negli aridi scantinati statistici ogni considerazione di pragmatismo: nessuno ricorda dove fossero in classifica le due squadre, nessuno sa a cosa servì quella partita in termini di obiettivi. E lo stesso risultato, 4-5, oggi serve solo per identificare quel frammento di meraviglia senza logica e non per indicare una squadra vincente e una perdente. E forse non è un caso che il primo rintocco di quella giostra indimenticabile sia stato di Ronaldo, la quintessenza del calcio dell’epoca, il 'Fenomeno' che aprì l’era della sopraffina tecnica brasiliana al servizio della velocità di esecuzione. Quello fu il suo tipico gol: scatto ad azzannare lo spazio, controllo volante, improvviso cambio di direzione e consegna della palla tra le morbide maglie della rete. Quasi un omaggio, nella stessa porta, a un’altra magia brasiliana capace di uscire dagli schemi un po’ velleitari dei colpi di tacco o delle danze squisitamente votate all’eleganza: quella di Falcao nel dicembre 1982, l’anno dello scudetto giallorosso con Liedholm in panchina. Una punizione da 30 metri che tutti pensavano sarebbe stata utilizzata per un lancio verso l’area e che invece il centrocampista mise con potenza e precisione nell’angolo dove Bordon non sarebbe mai potuto arrivare. Roma come Rio, l’Olimpico come il Maracanà a evocare gesta sudamericane questa volta sì, nello spazio fisico della capitale dell’Impero e nella cornice di una sfida che non poteva che rifletterne l’essenza. Del resto la bellezza e l’efficacia sudamericana ha illuminato le due squadre anche sul versante argentino, se è vero che ancora oggi i due monumenti più splendenti si chiamano Batistuta e Milito e se è vero che Zanetti proprio alla Roma segnò il suo ultimo gol in campionato con la maglia nerazzurra o che Balbo resterà nel film di questo romanzo con una tripletta indimenticabile. E se è vero che gli eroi degli ultimi incroci si chiamano Lautaro, Dybala e Soulé. Gol, spettacolo, talento, emozioni in serie. E proprio l’Olimpico è il forziere di quelle note che più di altre sono state scritte fuori dallo spartito per conferire melodia forte e schitarrate rock a questa sfida. Uno spartito pieno di legature e rimandi, scale che si intersecano tra loro e che precipitano come cascate nell’accordo pastoso e intenso di un finale da brividi. E così spicca la lirica dominante di Spalletti in quel 6-2 rifilato all’Inter di Mancini nella Finale di Coppa Italia del Maggio 2007, poco prima della 'vendetta' confezionata nel settembre successivo dallo stesso Mancini con un rotondo 1-4 in campionato. Oppure la potenza estatica di quello 0-4 inflitto dall’Inter di Mou alla Roma di Spalletti nel 2008 o di quel 4-0 imposto dai primi vagiti di un allenatore vincente, Luis Enrique, che all’epoca disarticolò l’esperienza del Ranieri nerazzurro. Lo stesso Ranieri che in giallorosso aveva operato il sorpasso su Mou grazie a Toni nel 2010, nell’anno del “non succede, ma se succede”, quello del triplete nerazzurro, quello dell’apice della rivalità tra due mondi fusi nella diade capace di comandare il calcio italiano nel primo quinquennio post Calciopoli, quello concluso da De Rossi che al termine del sogno cullato lungo l’arcipelago della rimonta seppe sublimare la delusione cocente dicendo: “Negli anni passati ci sono state occasioni in cui ci si poteva lamentare per l’opacità di alcuni episodi, ma stavolta no. Ci abbiamo provato, non ce l’abbiamo fatta. Complimenti all’Inter”. Non solo una manifestazione di fair-play, ma la dimostrazione di come in questa sfida i concetti di vittoria e sconfitta si scolorino di fronte a titoli, classifiche e trofei per assumere significato nella dimensione della bellezza, tecnica e morale. Del resto Roma-Inter è una creatura che vive di vita propria, un’entità mitologica a due teste ma il cui corpo è spesso unico, nella dimensione spettacolare e nella filosofia degli uomini che ne hanno forgiato le fattezze: non solo Herrera negli anni ’60, Radice negli anni ’80 o Bianchi negli anni ‘90, ma soprattutto coloro che nel nuovo secolo hanno sdoppiato la vista e per poi armonizzarla in una nuova messa a fuoco: Ranieri, Spalletti, Mourinho, in certa misura Stramaccioni e ora Gasperini hanno incarnato con alterne fortune la stessa filosofia in due contesti diversi, “due dentro ad un foco”, per dirla come Dante. In un caso, quello del tecnico portoghese, con risultati che nella libreria dei ricordi sfuggiranno alla polvere del tempo. Perché se Spalletti ha vinto giusto due Coppe Italia e una Supercoppa a Roma e se gli altri non hanno vinto nulla su nessuna delle due sponde, Mou è l’ultimo ad aver regalato ai tifosi di Inter e Roma un trofeo internazionale . La classica eccezione che conferma una regola dell’anima, perché l’uomo dei “tituli” calato in una sfida fatta della stessa materia dei sogni non poteva che vestire i panni di Puk per incarnarne alcuni, ma senza stravolgere la natura orfica di Roma-Inter. Quella natura capace comporre versi che si affrancano dal contesto per diventare simbolo di un’arte immortale. Nessuno si volti a guardare Euridice, il prossimo capitolo del viaggio poetico sta per cominciare…

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Alessandro Biolchi