Fra vergogna e mito: quando Armstrong pedalò nei campi a Gap
Ciclismo14 luglio 2003: Vinokourov scatta, Beloki cade rovinosamente in discesa, Lance gli è a ruota e ha pochi istanti per decidere che fare. Questione di attimi. Lì, non c'è doping che tenga...
di Lorenzo Longhi
Ora, con tutto quello che è venuto alla luce, ciò che è stato non conta più. Fuggono gli sponsor, la vecchia solidarietà dei compagni di squadra si tramuta in fango, il popolo che ha applaudito e ammirato la leggenda di Lance Armstrong non sa a chi credere. O forse sì, lo sa, ma non vuole ammetterlo.
Così, chi non crede che la Us Postal ed Armstrong fossero il male assoluto in un ciclismo di verginelle, spinge il tasto "rewind" e torna indietro, dove il doping non c'entra, dove la differenza fra essere Armstrong ed essere Hincapie o Hamilton non è questione di chimica. E' altro.
E' il genio, è colpo d'occhio, intuizione e rapidità d'esecuzione, per dirla alla Amici miei. Tour 2003, è il 14 luglio e la Francia in festa si dà appuntamento a Gap, dove arriva la nona tappa della Grand Boucle. A pochi chilometri del traguardo, Vinokourov strappa. Beloki prova a ricucire, ma cade rovinosamente (si fratturerà il bacino, lo spagnolo), scivolando su una chiazza di catrame in curva e in discesa. Armstrong gli è a ruota, il destino è segnato anche per lui: impatto, caduta.
Attimi, istanti. Lance devia sulla terra, punta la strada e pedala spingendo sull'erba, sugli avvallamenti della terra, memore del suo passato di triatleta. Punta la strada più in basso, dopo il tornante. Poi prende in braccio la bici, scende a piedi il dislivello di un metro e mezzo, torna in carreggiata proprio mentre arriva il gruppo inseguitore. Dodici secondi epici. Si può vincere o perdere un Tour, così.
E qui non c'è doping che tenga. Epo, Cera, Gh, auto-emotrasfusioni: qui, il segreto di Armstrong non sta in frigo, tra sacche e fiale: il segreto è Armstrong. E' stato Armstrong.
Ora, con tutto quello che è venuto alla luce, ciò che è stato non conta più. Fuggono gli sponsor, la vecchia solidarietà dei compagni di squadra si tramuta in fango, il popolo che ha applaudito e ammirato la leggenda di Lance Armstrong non sa a chi credere. O forse sì, lo sa, ma non vuole ammetterlo.
Così, chi non crede che la Us Postal ed Armstrong fossero il male assoluto in un ciclismo di verginelle, spinge il tasto "rewind" e torna indietro, dove il doping non c'entra, dove la differenza fra essere Armstrong ed essere Hincapie o Hamilton non è questione di chimica. E' altro.
E' il genio, è colpo d'occhio, intuizione e rapidità d'esecuzione, per dirla alla Amici miei. Tour 2003, è il 14 luglio e la Francia in festa si dà appuntamento a Gap, dove arriva la nona tappa della Grand Boucle. A pochi chilometri del traguardo, Vinokourov strappa. Beloki prova a ricucire, ma cade rovinosamente (si fratturerà il bacino, lo spagnolo), scivolando su una chiazza di catrame in curva e in discesa. Armstrong gli è a ruota, il destino è segnato anche per lui: impatto, caduta.
Attimi, istanti. Lance devia sulla terra, punta la strada e pedala spingendo sull'erba, sugli avvallamenti della terra, memore del suo passato di triatleta. Punta la strada più in basso, dopo il tornante. Poi prende in braccio la bici, scende a piedi il dislivello di un metro e mezzo, torna in carreggiata proprio mentre arriva il gruppo inseguitore. Dodici secondi epici. Si può vincere o perdere un Tour, così.
E qui non c'è doping che tenga. Epo, Cera, Gh, auto-emotrasfusioni: qui, il segreto di Armstrong non sta in frigo, tra sacche e fiale: il segreto è Armstrong. E' stato Armstrong.