Armstrong, un anno dopo: "Era una multinazionale del doping"
CiclismoL'INTERVISTA. A 12 mesi dalla squalifica dell'ex dominatore del Tour de France, Reed Albergotti e Vanessa O’Connell percorrono in un libro tutta la sua storia. "Le bugie? Funzionavano bene. E la sua personalità è ben diversa dall'immagine pubblica"
di Stefano Rizzato
Dalla tempesta perfetta, quella che cancellava sette anni dall’albo d’oro del Tour de France, sembra passato un secolo. Invece è poco più di un anno fa, nell’ottobre 2012, che l’Uci confermava la squalifica per Lance Armstrong e ne certificava la caduta nella polvere. Dalla gloria alle mille pagine del dossier dell’Usada (l’agenzia antidoping statunitense), che l’hanno inchiodato come il responsabile del più grande imbroglio sportivo mai riuscito.
Oggi il mondo del ciclismo ha già rimosso, cancellato vittorie, foto, memoria del suo ex dominatore. Ma a riportare la figura di Armstrong al centro dell’attenzione ci pensa un libro, “Il texano dagli occhi di ghiaccio”, edito per Mondadori e scritto da due giornalisti del “Wall Street Journal”, Reed Albergotti e Vanessa O’Connell. Quasi 400 pagine che servono a riempire un vuoto: quello lasciato dalla mezza confessione fatta da Armstrong a Oprah Winfrey, in tv.
Una ricostruzione minuziosa e definitiva della più grande bugia a pedali. Un mosaico ricomposto a partire dalle testimonianze di tanti ex compagni di Armstrong. Primo tra tutti Floyd Landis, ex gregario di Lance, poi re dopato e subito deposto del Tour 2006, infine reo confesso e testimone decisivo. “Fu proprio con la nostra prima intervista a Landis – racconta a Sky.it Vanessa O’Connell – che per la prima volta intuimmo di essere davanti a un’operazione sofisticata e con decine di partecipanti e complici. Ed è stato cercando di verificare le accuse di Landis che abbiamo capito che l’imbroglio andava ben oltre Armstrong. Era una multinazionale che coinvolgeva decine di persone”.
Non solo doping – Nel motore della Us Postal dei miracoli non c’erano solo auto-trasfusioni, cerotti al testosterone e ovviamente EPO. C’era soprattutto una pianificazione maniacale e assoluta, frutto delle preziose consulenze di Michele Ferrari, il preparatore-guru italiano. E poi c’era la macchina di un potere economico e mediatico, che nascondeva positività (al Tour 1999 e al Giro di Svizzera 2001) e schiacciava chiunque insinuasse dubbi.
“Perché così tante persone sono state disposte a nascondere la verità?”, si chiede O’Connell. “Purtroppo, si erano convinte che la verità non contasse. Le bugie funzionavano bene. Erano piuttosto credibili, specie l’idea che un atleta sopravvissuto al cancro, che era stato vicino alla morte, non si sarebbe mai dopato. E anche il fatto di aver superato centinaia di test antidoping aiutava. Come poteva essere dopato chi non era mai risultato positivo?”.
Dietro all’imbroglio – Insieme ai vari tasselli del grande imbroglio, gli autori mettono insieme anche quelli che compongono l'Armstrong uomo. E sono forse le pagine più affascinanti del libro: una serie di aneddoti rivelatori, che permettono di andare oltre le vittorie, oltre l’immagine eroica di dominatore made in Usa e di sopravvissuto al cancro. Prima intrattabile ragazzo prodigio del triathlon, poi ciclista con l’urgente ossessione di emergere, infine campione e sceriffo del gruppo. In mezzo, i litigi con il patrigno e quelli con i compagni di squadra meno disposti a farsi usare. E ragazze e donne a ripetizione.
"Abbiamo scoperto una personalità ben diversa dalla sua immagine pubblica”, conferma O’Connell. “Una personalità furiosamente competitiva e di mentalità direi imprenditoriale, fin dai 16 anni, piena di rabbia ed egoismo fin da allora. Per molti aspetti, tutta la storia di Armstrong con il doping è coerente con il suo carattere. E la sua vera debolezza è che non sopportava mai la sconfitta: doveva sempre vincere e superare gli altri”.
Ora che il velo è caduto, ora che chi ha investigato sul caso Armstrong – Bill Bock, Travis Tygart, Jeff Novitzky – ha vinto sugli “addestrati sostenitori” del texano, il ciclismo e lo sport restano mondi alla ricerca di una piena credibilità. “Proprio per questo è importante che sia stata fatta piena luce, per far sì che la gente torni a fidarsi”, conclude O’Connell. “Credo che quello di Armstrong sia stato un caso unico nel suo tempo. In futuro, sarà molto difficile per un atleta mentire così a lungo e così bene...”
Dalla tempesta perfetta, quella che cancellava sette anni dall’albo d’oro del Tour de France, sembra passato un secolo. Invece è poco più di un anno fa, nell’ottobre 2012, che l’Uci confermava la squalifica per Lance Armstrong e ne certificava la caduta nella polvere. Dalla gloria alle mille pagine del dossier dell’Usada (l’agenzia antidoping statunitense), che l’hanno inchiodato come il responsabile del più grande imbroglio sportivo mai riuscito.
Oggi il mondo del ciclismo ha già rimosso, cancellato vittorie, foto, memoria del suo ex dominatore. Ma a riportare la figura di Armstrong al centro dell’attenzione ci pensa un libro, “Il texano dagli occhi di ghiaccio”, edito per Mondadori e scritto da due giornalisti del “Wall Street Journal”, Reed Albergotti e Vanessa O’Connell. Quasi 400 pagine che servono a riempire un vuoto: quello lasciato dalla mezza confessione fatta da Armstrong a Oprah Winfrey, in tv.
Una ricostruzione minuziosa e definitiva della più grande bugia a pedali. Un mosaico ricomposto a partire dalle testimonianze di tanti ex compagni di Armstrong. Primo tra tutti Floyd Landis, ex gregario di Lance, poi re dopato e subito deposto del Tour 2006, infine reo confesso e testimone decisivo. “Fu proprio con la nostra prima intervista a Landis – racconta a Sky.it Vanessa O’Connell – che per la prima volta intuimmo di essere davanti a un’operazione sofisticata e con decine di partecipanti e complici. Ed è stato cercando di verificare le accuse di Landis che abbiamo capito che l’imbroglio andava ben oltre Armstrong. Era una multinazionale che coinvolgeva decine di persone”.
Non solo doping – Nel motore della Us Postal dei miracoli non c’erano solo auto-trasfusioni, cerotti al testosterone e ovviamente EPO. C’era soprattutto una pianificazione maniacale e assoluta, frutto delle preziose consulenze di Michele Ferrari, il preparatore-guru italiano. E poi c’era la macchina di un potere economico e mediatico, che nascondeva positività (al Tour 1999 e al Giro di Svizzera 2001) e schiacciava chiunque insinuasse dubbi.
“Perché così tante persone sono state disposte a nascondere la verità?”, si chiede O’Connell. “Purtroppo, si erano convinte che la verità non contasse. Le bugie funzionavano bene. Erano piuttosto credibili, specie l’idea che un atleta sopravvissuto al cancro, che era stato vicino alla morte, non si sarebbe mai dopato. E anche il fatto di aver superato centinaia di test antidoping aiutava. Come poteva essere dopato chi non era mai risultato positivo?”.
Dietro all’imbroglio – Insieme ai vari tasselli del grande imbroglio, gli autori mettono insieme anche quelli che compongono l'Armstrong uomo. E sono forse le pagine più affascinanti del libro: una serie di aneddoti rivelatori, che permettono di andare oltre le vittorie, oltre l’immagine eroica di dominatore made in Usa e di sopravvissuto al cancro. Prima intrattabile ragazzo prodigio del triathlon, poi ciclista con l’urgente ossessione di emergere, infine campione e sceriffo del gruppo. In mezzo, i litigi con il patrigno e quelli con i compagni di squadra meno disposti a farsi usare. E ragazze e donne a ripetizione.
"Abbiamo scoperto una personalità ben diversa dalla sua immagine pubblica”, conferma O’Connell. “Una personalità furiosamente competitiva e di mentalità direi imprenditoriale, fin dai 16 anni, piena di rabbia ed egoismo fin da allora. Per molti aspetti, tutta la storia di Armstrong con il doping è coerente con il suo carattere. E la sua vera debolezza è che non sopportava mai la sconfitta: doveva sempre vincere e superare gli altri”.
Ora che il velo è caduto, ora che chi ha investigato sul caso Armstrong – Bill Bock, Travis Tygart, Jeff Novitzky – ha vinto sugli “addestrati sostenitori” del texano, il ciclismo e lo sport restano mondi alla ricerca di una piena credibilità. “Proprio per questo è importante che sia stata fatta piena luce, per far sì che la gente torni a fidarsi”, conclude O’Connell. “Credo che quello di Armstrong sia stato un caso unico nel suo tempo. In futuro, sarà molto difficile per un atleta mentire così a lungo e così bene...”