Simon Yates ha ucciso il drago: il Giro numero 108 fra passione e redenzione

Come per il suo celebre omonimo Richard, fino alla Revolutionary Road del 31 maggio scorso anche quella di Simon Yates era stata, perlomeno ciclisticamente, «una vita occidentale, moderatamente infelice in quella che avrebbe dovuto essere la terra promessa». Da quel sabato però il suo mondo – e quello di chi gli sta intorno – è cambiato. Simon Yates non è più “solo” il re in rosa scaraventato giù dalla collina da Chris Froome con quella strepitosa cavalcata solitaria di 80 km nel 2018. Stavolta, sette anni dopo, è stato lui, il 32enne mancuniano di Bury, a cuocere a fuoco velocissimo – in 59’18” l’ascesa di Simon sul Finestre, a 18,46 km/h di media ; Chris lo scalò in 1h 04’ 26” – il baby-monarca messicano Isaac Del Toro e il di lui aspirante usurpatore ecuadoriano Richard Carapaz, già sovrano nel 2019 fra i litiganti Nibali e Roglić. Foss’anche solo per quest’Impresa, un Giro memorabile, il #108. E che però ha raccontato molto altro. Ripercorriamolo. La Grande Partenza di “Mad” Mads Un uomo solo al comando, le sue maglie sono quella caleidoscopica della Lidl-Trek, la prima maglia rosa di questa edizione e quella ciclamino blindata sin dalla tre giorni albanese. La prima parte di Giro se la prende a forza Mads Pedersen. Dopo una sontuosa campagna nelle classiche di primavera , il 29enne danese è nella forma della vita. Brucia allo sprint Van Aert a Tirana alla prima e Strong a Valona alla terza. Gli autentici capolavori li pennella però a Matera alla quinta e soprattutto a Vicenza, ancora su Van Aert, alla 13ª: volatona tutta sui pedali salendo al Santuario del Monte Berico con punte ai 33 km orari. Un mostro di potenza, agilità, tempismo e fondo. Il prototipo del velocista resistente moderno. Se a questo aggiungiamo le note doti di leadership e di uomo-squadra pronto pure a mettersi al servizio dei compagni, ecco perché “Mad” Mads è oggi, come specialista, il perfetto contraltare ai dioscuri di quest’epoca Tadej Pogačar e Mathieu van der Poel . Wout, ovvero della passione e resurrezione La prima settimana in territorio italiano si consuma e sublima nella buona e cattiva sorte di Wout Van Aert. Dopo una primavera mal consigliata e travagliata per un virus, il WVA visto sin qui sembra l’ombra del fuoriclasse completo che fu. Il de profundis alla carriera sembra già vergato, ma nella “sua” Piazza del Campo a Siena, nella terribile tappa degli sterrati, la nona. Occhio a dire: «delle Strade Bianche», quella è tutt’altra gara. Ma è proprio nella Classica del Nord più a Sud d’Europa che vedemmo nascere una stella, era il 2018 e quel debuttante proveniente dal ciclocross si rivelò al mondo. Finì terzo dietro Benoot e Bardet in un tempaccio da tregenda, addirittura dovette mettere piede a terra sul Muro di Santa Caterina, ma fu là e allora che ne intuimmo la grandezza. Ed è stato là che, dalla settimana di passione, è risorto: staccando nello sprint a due Isaac del Toro, che sfila a Ulissi la maglia rosa. Rinata una stella, ne è nata un’altra. Ulissi in rosa, Oscar alla carriera Il giorno prima s’era infatti scritta un’altra storia bella – qui non di redenzione ma di puro amore – di questo Giro. La fiaba rosa di Diego Ulissi, quindici anni da pro’ e 8 vittorie di tappa ma mai neppure un giorno con la maglia di leader della corsa seguita e sognata da bambino nei lunghi pomeriggi davanti la tv in compagnia del nonno. Indossarla, seppure per un giorno soltanto, per di più nella sua Toscana e dopo la grande paura per la miocardite, è stato più che il sogno d’una vita, o un Oscar alla carriera. E non per niente sia lui sia Yates, sul podio quella maglia l’hanno baciata in lacrime. Un apostrofo rosa tra le parole t’amo. Le cadute degli dei La Gubbio-Siena è stata però, e per tutt’altri motivi, il primo vero crocevia del Giro. Sullo sterrato son andati giù tanti big, compresi Primož Roglič e Juan Ayuso, i grandi favoriti della vigilia. Lì, la corsa è fatalmente svoltata. Giulio Pellizzari, la grande speranza azzurra che neppure doveva essere al via, s’è ritrovato da gregario deluxe richiesto dal leader sloveno a capitano della Red Bull-Bora-hansgrohe. Qualcuno gli ha fatto anche balenare strane idee , ma a 21 anni – stessa età di Del Toro – ha tutto per farci sognare un futuro più… roseo che ci riservi un corridore italiano con almeno il potenziale per competere ai massimi livelli nei grandi Giri. Quanto al 22enne spagnolo , il ginocchio destro picchiato nella caduta ha scoperchiato il vaso di Pandora dei troppi galli nel pollaio UAE Emirates-XRG: scalzato Ayuso, secondo a 25”, ecco il compañero del Toro, che nelle gerarchie interne ha scalzato pure le altre punte Adam Yates e Brandon McNulty. In mediana non stat virtus La seconda settimana piena si apre con la seconda crono, dalle Mura di Lucca alla Torre di Pisa, 28,6 km per specialisti dei rapportoni. Tutto fa pensare a un bis di Josh Tarling, che già si era imposto nei 13,7 km di Tirana alla seconda. Il Pippo Ganna gallese chiude invece piazzato a 7” da Daan Hoole, nederlandese della strepitosa Lidl-Trek che poi centrerà anche la sesta vittoria con Carlos Verona ad Asiago alla 15ª. Quattro volate, una crono e una fuga solitaria: per l’allegra banda di Luca Guercilena, un Giro da incorniciare. Detto col massimo rispetto per i “numeri” di Carapaz a Castelnovo ne’ Monti , l’atteso primo sprint vincente di Olav Kooij a Viadana , e le imprese solitarie del flandrien danese Kasper Asgreen a Gorizia e dello stesso Verona ad Asiago, la mancanza di un tappone di vera montagna nella settimana mediana s’è sentita eccome. Ma siccome, nel bene e nel male, la corsa la fanno più i corridori che il percorso, ci ha pensato proprio la Treviso-Nova Gorica a speziare quella che doveva essere una banale tappa di trasferimento alla vigilia del Monte Grappa . Ai -22 km, il combinato pioggia + ciottolato sul circuito finale molto tecnico e troppo insidioso ha causato il patatrac: gruppo spezzato in tre tronconi, e tra i big giù per terra Pedersen e i nostri Tiberi e Ciccone. Antonio resta con le caviglie sotto un groviglio di corridori e bici, se la cava con una gran botta al fianco sinistro ma le sue ambizioni di classifica finiscono lì. Così come i suoi gradi di capitano, invertiti con la chioccia Damiano Caruso, che a 37 anni e non sentirli non solo correrà ancora per un anno ma chiuderà quinto nella generale. Chapeau bas. Giulio invece ha la peggio: rifiuta l’ammiraglia e finisce la tappa-calvario scortato dai compagni ma in serata, per il vasto ematoma al quadricipite destro, il team ne annuncia l’abbandono. Dovrà star fermo due settimane, nella speranza di rivederlo al Tour. Revolutionary Road La terza settimana, al solito, è quella della verità. Si apre con il tappone da Piazzola sul Brenta a San Valentino Brentonico e si chiude, finalmente, il digiuno di vittorie italiane in una edizione. Eguagliato il primato negativo spezzato, sempre alla 16°, da Vincenzo Nibali a Bormio 2017. La prima soddisfazione in realtà ce la regala una coppia: Cristian Scaroni che arriva mano nella mano, ma davanti sul traguardo, con l’amico Lorenzo Fortunato, maglia azzurra dalla terza all’ultima tappa e stravinta con record di punti: 355. Terzo a 55” Pellizzari, e forse lì qualcuno s’è illuso che Giulio potesse ambire a qualcosa di più che un successo parziale nei restanti tre tapponi prima del gran finale romano. La Revolutionary Road yatesiana sembra lì lì per interrompersi già l’indomani, 17ª tappa, nei 154 km da San Michele all’Adige a Bormio con in mezzo il Passo del Tonale e il Mortirolo , lontano però 48 km dal traguardo e preso da Monno, il versante meno duro ma comunque pur sempre 12 km con un tratto al 16%. La frazione – la sua prima al Giro – la vince del Toro, che per 4” sfila il sogno di fine carriera a Romain Bardet: 4 volte al Giro e 4 volte secondo di tappa, una per ogni sua partecipazione. Smetterà a giugno col Delfinato, la sua corsa del cuore, ma anche il francese un Oscar alla carriera l’avrebbe meritato eccome. Terzo al traguardo, a 4” con Romain Bardet, arriva Carapaz, che nella generale insegue Del Toro a 41” e precede di 10” proprio Yates, scavalcato al secondo posto dove il mancuniano s’era ritrovato grazie anche ai capitomboli altrui di Nova Gorica. Dopo la Morbegno-Cesano Maderno, un giovedì di “scarico” fra la doppia coppia di tapponi alpini – ma col primo caldo vero, e vinta a sorpresa da Nico Denz che ha anticipato la volatona di gruppo –, ci si aspettavano grandi battaglie nella Biella-Champoluc di venerdì: la tappa regina rimasta tale solo sulla carta. Cinque montagne e 4908 metri di dislivello che hanno partorito il topolino francese Nicolas Prodhomme, uno che fino ai 18 anni faceva ancora l’elettricista, e vincitore in solitaria con 58” su Del Toro, che il giorno dopo pagherà caro il formaggio 2” di abbuono tolti di bocca a Carapaz, terzo al traguardo e secondo nella generale ma ora a 43”. Yates, al via della Verrès-Sestriere, è terzo a 1’21”. Il podio pare blindato, e lo è: ma non nelle posizioni, e tantomeno nei distacchi. Rome Sweet Rome Sette anni dopo, “San Giorgio” ha ucciso il drago, non per salvare una principessa ma per saldare un vecchio conto che, a un certo punto, gli aveva fatto pensare di smettere. Con una rimonta già leggenda Simon Yates vince il Giro #108 là dove lui e forse ancor più Tom Dumoulin avevano perso il #101: sul terribile Colle delle Finestre: 18,5 km al 9,2% di media e punte al 14; di cui otto km di sterrato al 9%. Un’impresa epica con un capolavoro tattico almeno due volte figlio della storia. Nel 2018, 80 km in fuga d’altri tempi di Chris Froome. Stavolta, con Van Aert testa di ponte sin dal mattino: stessa tattica – alla Beppe Martinelli, ricordate Scarponi-Nibali a Risoul 2016? – già usata a Hautacam dalla stessa Visma per Jonas Vingegaard contro Tadej Pogacar al Tour 2022. La 20esima tappa l'ha vinta con in solitaria l'australiano Chris Harper con 1'49" sul nostro Alessandro Verre e 1'57" sullo stesso Yates. Il Terzo Uomo nel quale, prima ancora che le rispettive, sprovvedute ammiraglie UAE e Education First, non hanno creduto davvero né l’imberbe maglia rosa del Toro, né l’espertissimo Carapaz. Due latinoamericani di sangre caliente che proprio non si amano: e come Carapaz fra Nibali e Roglič nel 2019, alla fine tra i due litiganti il terzo gode. L’istantanea-chiave di questo Giro è il reiterato voltarsi di Del Toro che chiede a Carapaz i cambi che lo stesso messicano gli aveva negato. E che l’ecuadoriano, scuotendo ripetutamente la testa, sdegnosamente gli rifiuta. E così a Sestriere, dopo 205 km con 3 GPM e 4400 metri di dislivello, il capitano della Visma-Lease a Bike pilotato fino all'ultimo da Wout Van Aert – decisivo con Edo Affini anche per il bis di Kooij a Roma, e sul podio finale col Trofeo di Più Combattivo – s’è preso la rosa con addirittura 3’56” su Del Toro, secondo al debutto in un grande Giro e maglia bianca dopo 11 giorni da leader, a e 4’43” su Carapaz. Per il fratello di Adam, suo gemello-rivale e gregario di Del Toro nella UAE, è il secondo grande giro dopo la Vuelta di sette anni fa. Quando un drago gli strappò il Giro ma non il cuore infinito di un campione. «Ride to redemption» ha aperto in back-page l’Observer l’indomani, relegando a un triangolino in alto a destra l’occhiello sul PSG fresco vincitore della Champions League sull’Inter. «Rome Sweet Rome, titolerà facile ma efficace il Manchester Evening News due giorni dopo, a Giro vinto. Perché casa dolce casa è dove si ha il cuore. La Festa di maggio siamo noi Comunque lo si guardi, il Giro 108 è stato memorabile anche per altro. Per i grandi ritorni: quello di Carapaz sul podio, il terzo al Giro dopo il successo nel 2019 e il secondo posto nel 22; ma soprattutto quello di Egan Bernal, settimo, riapparso competitivo a tre anni dal terribile incidente. È stato però anche il Giro delle cadute, troppe e pesanti: Landa, Roglič, Ayuso, Ciccone, Tiberi, Hindley, Vine; i drammi solo sfiorati di Tarling, Pasqualon e Martinelli. È stato, infine, l'ultimo da direttore di corsa per Mauro Vegni, che per il suo canto del cigno rosa meritava forse un percorso diverso, al di là degli ovvi compromessi economico-politico-sociali che ogni edizione comporta. Per senso ciclistico e della storia ci mancherà. Come già ci manca il Giro. È la nostra Festa di maggio. E per quanto malata cronica di provincialismo, memorabile lo è ogni anno. Perché è parte di noi. No, siamo noi.

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