Han voluto la bicicletta, e noi la pedaliamo

Premessa, così sgombriamo subito il campo da eventuali mistificazioni: è una convenzione. Un po’ come il 15 gennaio 1892 per il basket: il gioco lo ha ideato nel dicembre 1891 il canadese James Naismith, un insegnante di educazione fisica a Springfield, nel Massachusetts; la prima partita 'sperimentale' si è giocata quel 15 dicembre ma, appunto per convenzione, è dalla pubblicazione sul giornale Triangle delle Tredici regole originarie che si fa risalire la data di 'nascita' del gioco. Il 26 giugno 1819 non è la data di nascita della moderna bicicletta, ma solo quella del suo primo brevetto: depositato negli Stati Uniti, a New York, a nome di W. K. Clarkson Jr. E purtroppo andato in fumo, alla lettera, nell’incendio divampato negli uffici dell’U.S. Patent Office nel 1836. Anzi, a proposito di nome, quello strano aggeggio nemmeno si chiamava così: 'velocifero' era il termine in uso già dal 1793, divenuto poi 'velocipede', per indicare un veicolo a due ruote ma senza pedali. Che, essi pure, ancora non erano stati inventati, figuriamoci registrati. E il neologismo 'bicycle' non verrà coniato che nel 1868. Quanto alla 'vera' nascita di quella che in italiano sarà poi chiamata bicicletta, altro che due secoli fa: risale alla notte dei tempi. Nella solita Cina, già quattromila anni fa, pare circolasse un mezzo con ruote di bambù detto 'Dragone felice'. Nel tempio di Luxor, in Egitto, è stato scoperto un graffito che rappresenta un uomo seduto su una sbarra sospesa tra due ruote. Nella biblioteca dell’Università di Heidelberg, in Germania, è custodito un documento del XIV secolo, il Sachsenspiegel, che reca la miniatura di un uomo a cavallo di una sbarra tra due ruote. Dal 1966 invece sappiamo che già Leonardo da Vinci aveva ideato un progetto di 'bicicletta'. Lo dimostra il disegno trovato l’anno prima durante i lavori di restauro del Codice Atlantico: il professor Augusto Marinoni, incaricato di trascrivere il Codice, attribuì quel disegno – raffigurante un prototipo in legno con tanto di due ruote uguali, manubrio, sella, pedali e catena – a un allievo di Leonardo del quale avrebbe copiato un progetto andato perduto. Dal Conte al Barone Quanto alla genesi della moderna bicicletta, è anch’essa ammantata di leggenda. Come quella secondo la quale un fantomatico conte de Sivrac, nel 1790 , dunque agli albori della Rivoluzione francese, avrebbe inventato il cosiddetto 'celerifero': una specie di 'cavallo di legno' a due ruote rigide alla cui guida era stato visto nei giardini del Palazzo Reale a Parigi. In realtà il conte in questione non è mai esistito e il presuntamente suo celerifero non era che una diligenza a cavalli importata in Francia dall'Inghilterra nel 1817 da un certo Henri de Sievrac. Quando una vocale fa la differenza. Per una volta, però, si è riusciti a risalire alle origini della fantasiosa ricostruzione, per non dire bufala o falso storico. E si deve a tale Louis Baudry de Saunier, autore nel 1890 – dunque un secolo esatto dopo quella fittizia attribuzione – di una immaginifica 'Histoire générale de la vélocipédie'. È invece ormai storicamente acclarato che il principio del mezzo a due ruote sia da ascrivere all’intuizione di un altro aristocratico, ma fervente democratico, il barone Karl Drais von Sauerbronn . Rampollo di una nobile e antica famiglia del Granducato di Baden, Stato tedesco dal 1806 al 1918 e oggi appartenente allo Stato federato del Baden-Württemberg. Fra le molteplici e variegate invenzioni che gli vengono attribuite, la 'Schnellschreibklavie' – alla lettera un 'pianoforte per scrivere veloce', di fatto una proto-macchina per scrivere a tasti –, un estintore, un riflettore a luce solare e, siccome anche i geni devono pur mangiare, un tritacarne. Claudio 'Greg' Gregori, storico inviato de La Gazzetta dello Sport e inarrivabile aedo di settore, nella Treccani ne cita "perfino un sottomarino con periscopio". Io cerco la Draisina Poiché è noto che la necessità aguzza l’ingegno, Drais cercava un mezzo di trasporto veloce che prescindesse dall’impiego di cavalli, di cui all’epoca c’era stata una diffusa moria in seguito a una grave carestia. Se c’era un’altra dote che al buon Karl non faceva difetto, era quella di non arrendersi ai primi fallimenti. Nel dicembre 1813 nella sua Karlsruhe ne esibì una prima versione, a quattro ruote, detta 'Fahrmaschine' , allo zar di Russia, Alessandro I, che si stava recando all’imminente Congresso di Vienna . Nonostante l’entusiasmo dell’imperatore, che gradì al punto da donargli un anello tempestato di diamanti, l'invenzione non sfondò. E così, dopo diversi tentativi non riusciti, il 5 aprile 1817 ne presentò al pubblico una seconda. Uno strano aggeggio su cui percorse ben tredici chilometri in meno di un’ora. Un anno dopo, caso vuole proprio il 26 giugno, Drais brevettò la sua invenzione che chiamò 'Laufmachine', alla lettera e stavolta non solo: 'macchina per correre'. Alla stampa , però, quel nome piaceva il giusto. Un po’ perché poco titolabile, e molto perché la categoria – a ogni latitudine – è da sempre assai incline a salire sul carro del vincitore, la battezzò prima draisienne, ça va sans dire, in onore dell’ideatore, poi nel più prosaico e francesissimo vélocipède . Quella prima 'draisina', così tradotta al di qua delle Alpi, aveva un telaio in legno del peso di circa 22 kg. E, diversamente ad altri prototipi del passato più o meno lontani , una sorta di proto-sterzo, più che un manubrio per quanto mobile, che garantiva al mezzo più equilibrio oltre che la possibilità di 'guidarla'. Piccolo particolare: non essendo ancora stati inventati i pedali, per farla muovere bisognava poggiare i piedi a terra e spingersi in avanti. Una fatica-bestia, è il caso di dirlo, ma in Inghilterra ebbe subito un successone, per quanto effimero. Tanto che là, col brevetto del 22 dicembre 1818, fu rinominata 'dandy' 'horse', un cavallo per andare a spasso. E con cui dilettarsi durante quello che, come i pedali e certo non per la plebe, ancora non esisteva come 'tempo libero'. Ci vorranno però altri quarant’anni prima dell’invenzione dei pedali , ed essendo anche poco stabile e troppo pericolosa , quella seconda antenata della bicicletta vivrà tempi difficili, improbabili modelli a tre o a quattro ruote. E un radicato, trasversale ostracismo . Brevetti à gogo Il 12 luglio di quello stesso anno, il 1817, Drais 'a cavallo' della sua 'draisienne' da Mannheim a Schwetzingen e ritorno: 28 km in totale. Nelle settimane successive tocca i 78, da Karlsruhe a Kehl. Il 12 gennaio 1818 il granduca del Baden, Carl, gli concede il 'brevetto d’invenzione'; e lo stesso accade in Francia il 17 febbraio , poi in Prussia e in Baviera. Il 5 aprile ai Jardin du Luxembourg, nel 6° arrondissement di Parigi, ne ospita una dimostrazione per pubblico a pagamento. E Le Journal de Paris annuncia addirittura le prime corse di velocipedi o 'draisiennes' su un percorso di trecento tese , pari a 585 metri. L’ingresso costa un franco e mezzo per gli uomini, un franco per le donne, mezzo per i bambini. Al botteghino si presentano in tremila, per un incasso di 3600 franchi. La novità attira e incuriosisce, e mentre la stampa resta scettica , la massa apprezza e la 'moda' della 'draisienne' si diffonde. Per certe autorità, pure troppo. A Milano, il 3 settembre, un bando emesso dalla Imperial-regia, direzione generale di polizia, vieta l’uso notturno dei velocipedi: sul selciato il baccano è infernale e la gente non riesce a dormire. Quella grida, molto manzoniana, del firmatario G.N. Frigerio, specifica che: "È proibito di girare nottetempo sui velocipedi per le contrade e per le piazze interne delle città. È però tollerato il corso dei medesimi sui bastioni e sulle piazze lontane dall’abitato". Nel 1819 alla voce brevetto sì, si accodano il Belgio e, quel famoso 26 giugno, gli Stati Uniti. Ma non Francoforte, capitale della Confederazione degli Stati tedeschi, e Vienna, che invece rigettano la domanda. In Inghilterra, invece, come sempre sono all’avanguardia: Denis Johnson forgia il mezzo in acciaio, lasciando in legno solo asse e ruote; e si fabbricano i primi veicoli per le donne. Tiratura, circa quattrocento pezzi. Suffragette del movimento sì, ma non ancora a pedali. Per quelli ci vorranno ancora quarant’anni. Sempre oltremanica, ma in Scozia, si compie un altro piccolo, grande passo per il futuro dell’umanità in bicicletta. Per far sollevare i piedi da terra Kirkpatrick Macmillan, un fabbro dell’Ayrshire, nel 1839, a 27 anni, ha un’idea meravigliosa: una manovella, mentre a un commerciante di rame e ferro di Lesmahagow, Gavin Dalzell, si deve invece l’invenzione del velocipede a leve. Un reportage del Glasgow Courier, dal titolo 'The Velocipede', racconta il viaggio di 110 km che Macmillan ha percorso da Dumfries a Glasgow fra il 6 e il 7 giugno 1842, e i 5 scellini di multa – la prima, perlomeno documentata, nella storia del mezzo – comminatagli "per aver turbato la circolazione e investito un bambino". I pedali, finalmente Come in una favola, non poteva mancare il cappellaio 'matto', in senso buono. Nel marzo 1861 il parigino Auguste-Arsène Brunel, che di mestiere quello era, porta a riparare la sua 'draisienne' da un fabbro bretone di adozione e nato nel 1813 in Lorena a Bar-le-Duc, tale Pierre Michaux. Mai noto per il bernoccolo degli affari, dopo due fallimenti Monsieur Michaux si era trasferito a Commercy e, all’inizio del 1855, a Parigi dove aveva trovato lavoro in un officina che riparava carrozze. Uno dei suoi sei figli, Ernest, di 19 anni, non resiste alla tentazione di uscire a provarla. Rientrato cotto, la sera ne parla col papà: troppa fatica e poca resa, servirebbero "deux petits repose-pieds" il sunto dell’improvvisato briefing post-uscita in tempi assai lontani da wattaggi e tabelle in zone 1-2-3. Père Pierre allora s’ingegna e prima fissa due poggiapiedi alla forcella, poi inserisce un asse al centro della ruota anteriore in modo che, tramite due leve contrapposte in esso calettate, la ruota possa girare come nella mola. Eureka! Non eppur, ma finalmente, si muove. Ernest, per manualità meccanica tutto suo padre e forse di più, non solo adotta l’idea paterna ma la migliora: adatta al mozzo della ruota anteriore due aste di metallo lunghe una ventina di centimetri e in un foro alle estremità di ciascuna inserisce un pezzo di ferro. È il primo proto-pedale della storia, e lo stesso Ernest è il primo a coniugare nella pratica un verbo ancora non inventato: 'pedalare'. La 'draisienne' che sua non era ma da lui così modificata la testa sugli Champs-Élysées, là dove oggi – da cinquant’anni esatti – si conclude il Tour de France, location scenografica senz’altro più grandeur del vecchio velodromo di Vincennes. In discesa fila tutto liscio, in salita deve mettere il piede a terra, ma tutto sommato l’artificio funziona. Per un’altra invenzione che cambierà il corso della Storia, il deragliatore, bisognerà aspettare il 4 novembre 1927 e la geniale intuizione di Tullio Campagnolo, classe 1901, in gara da dilettante sul Passo Croce d’Aune, in provincia di Belluno, durante il Gran Premio della Vittoria. "Ghè de cambiar qualcossa de drio", le memorabili parole in dialetto veneto – figlie dell’impellenza: il gelo aveva bloccato i dadi della ruota posteriore – consegnate alla posterità. Nel febbraio 1930, per cambiare rapporto senza dover smontare la ruota, realizzerà il 'mozzo a sgancio rapido', brevettato nel 1933 come 'Cambio Campagnolo' e da quell’anno in produzione nella sua fabbrica di 'pezzi per bici' a Vicenza. All’inizio il suo Campagnolo Corsa, detto anche cambio 'a bacchetta' o 'a due leve', per quanto pratico e geniale, era però ritenuto anche pericoloso, tanto che in Inghilterra lo chiamavano “the suicide shifter”. Quanto al Pierre 'inventore' del pedale, intuitene le potenzialità, i Michaux si mettono a produrre in serie velocipedi in legno di faggio massiccio con ruote a 90 centimetri a otto raggi. Piccolo problemino: le prime 'michaudines' pesano 40 kg. Ne vendono due nel 1861, 142 nel 1862, quattrocento nel 1865 a 500 franchi d’oro l’una. Purtroppo per i Michaux il primo brevetto del 'Velocipede' non è loro, ma viene concesso, negli Stati Uniti il 20 novembre 1866, a un altro Pierre lorenese trasferitosi a Parigi, tale Lallement, e poi emigrato ad Ansonia, nel Connecticut, e al suo socio James Carroll. La concorrenza si fa presto spietata, e i Michaux vanno in rovina: il 29 marzo 1870 il giudice ne dichiara fallita la società, e Pierre morirà in povertà il 9 gennaio 1883. Epilogo simile a quello del fu barone Karl Friedrich Christian Ludwig Drais, che nel 1849 – fallita la rivoluzione borghese – rinunciò al titolo nobiliare e al prefisso 'von' nel cognome e nel 1851 morì, lui pure, in miseria. Nessuno può dire d’aver 'inventato' la bicicletta , ma se oggi ne festeggiamo il compleanno, almeno quel 'brevetto' è anche il loro.

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