Elia Viviani si è inventato l’addio perfetto

Andarsene così, come tutti vorrebbero fare, ti può riuscire solo se hai saputo viverla così: come tutti vorrebbero viverla. Elia Viviani s’è inventato l’addio perfetto, come il giocatore di biliardo piuttosto ispirato o più volentieri spaccone che dichiara il colpo prima di eseguirlo. Ha fissato la data dell’ultimo sprint e dopo l’ha vinto, quello sprint: di mezza ruota. Campione del mondo su pista, nell’Eliminazione, concorso dove si parte in molti e si resta in due: l’altro era il neozelandese Campbell Stewart. Non è stato un congedo istintivo e spontaneo dopo una vittoria, quell’attimo di vanità che è stato di altri campioni: lasciare nel giorno in cui il mondo è già radunato, per colpirlo a effetto. È stata un’altra sfida. Viviani poteva anche perdere l’ultima corsa, così diversa nell’attesa ma ugualmente preparata con lo scrupolo e la devozione alla fatica che riconosce e distingue il ciclista: come ogni altra prova, come ogni altro giorno per chi sceglie questo sport, questo sacrificio che diventa movente, ragione di vita che scava il corpo nei suoi anni virili, che consuma energie come un moccolo acceso sopra e sotto. Il ciclista è disperato ma la gente applaude il suo passaggio: gli vuole bene anche se quasi nessuno lo riconosce alla stazione o all’aeroporto. La figura è al limite della sopravvivenza, è pelle, ossa, poca carne, i muscoli sono solo nel motore al di sotto della sella e lo scheletro è a vista sopra gli organi vitali. Il ciclista è sulla strada, è il più debole della marcia: cade, si spezza, l’ammazzano o si rialza e finisce la sua corsa spingendo al massimo per un guadagno che quasi mai serve alla sua classifica eppure lo tiene in asse con sé stesso, con il dovere verso la sofferenza e con il sogno che uno scrittore un giorno provò a raccontare, quello del pellegrino in fuga diretto verso una meta fantasma che non raggiungerà mai. Nella storia di Viviani la città forse esiste e dal sorriso con la medaglia al collo pare averla trovata. Il suo è pieno, non è quel turbamento che impasta i troppi sentimenti discordanti nel giorno dell’addio, quando il corpo e la testa pressano per versi opposti, quando la ragione è pungolata dall’orgoglio, quando gioia e pianto si scambiano la parte e la paura del giorno dopo è l’horror vacui che in quell’attimo niente pare poter decorare. Anche questa cerimonia è consueta - e non si tratta di scegliere la migliore, di imporre un canone dell’addio per una decisione così personale e intima che non andrebbe giudicata. C’è sicuramente grandezza anche nel dispendere la gloria accumulata allungando il viale del tramonto e trasformarlo in un giro d’onore infinito raccontato come omaggio agli appassionati e che sembra piuttosto l’omaggio a sé stessi. Eppure c’è romanticismo anche nel darsi fino al grottesco per un infantile desiderio di non voler smettere di giocare, o nel circo di Buffalo Bill, che venne dall’America a incassare la sua leggenda insieme alle sconfitte contro i butteri del Pontino. Ognuno scende a modo suo, disarcionato dal tempo o ancora in piedi. Smettere è separarsi da qualcosa che si è amato, è un passaggio dove si protegge quello che si è stati e si costruisce quello che saremo. Negli sportivi questo cambiamento avviene in età prematura rispetto a quella biologica di ogni altro lavoratore e spesso è una perdita violenta di ruolo: quel giorno, quando accade, studiamo quei volti e cerchiamo di capire come hanno scolpito le nostre vite, perdendo di vista le loro. Viviani - vincendo l’ultima volata - ha rivendicato un rasserenante controllo su la sua scelta e sui nostri sentimenti. Ora tocca a lui. Elia è nome di un profeta e patrono degli aviatori per una certa prospettiva aerea della sua vita biblica: quello in terra, invece, si è misurato con le radenze, le resistenze dell’asfalto e delle resine. Un giorno di 13 anni fa - indeciso davanti al calendario olimpico del giorno 5 agosto, città di Londra - incontrai a colazione Davide Cassani che avevo più volte molestato sul ciclismo dei suoi tempi e dei miei sogni, lui che aveva corso in squadra con il mio idolo Roberto Visentini. Mi suggerì la risposta: vieni al velodromo che Viviani si gioca l’oro nell’Omnium. Mi convinse con un invito sincero e persuasivo: il ciclismo su pista ti emozionerà. Lui al tempo era la voce tecnica delle telecronache per la RAI , io ero inviato dell’Unità, ero in solitaria per il mio giornale e potevo scegliere i concorsi sui quali avrei poi scritto, ovviamente con precedenza alle medaglie italiane e ai miti dello sport, come Phelps o Bolt. Quella mattina andai prima in campagna, dove la ventenne Jessica Rossi spaccò 99 piattelli su 100, vincendo l’oro. Il pomeriggio mi accomodai nel Velopark. E scrissi: “Si lanciano, i pistard, ciclisti remoti e magnifici. Viviani ha carattere e valore, raccoglie i punti nei concorsi di ‘mischia’, cede in quelli di ‘passo’: l’inseguimento, il chilometro lanciato. La sua prova è una curiosa sintesi di tutte la gare che si possono compiere in un velodromo. Si chiama appunto Omnium. Il danese Hansen - sua è la medaglia d’oro - è opposto al veneto, pavido nella lotta, è un portento nell’esercizio solitario: il chilometro da fermo, l’inseguimento. Sono sei momenti distribuiti in due giorni, Viviani è sempre con i primi e quando manca un chilometro è virtualmente sul podio, se lo fa durare due secondi di troppo. Che spettacolo, che atleti. Per la sua stessa potenza questo sport è sempre sul filo, sul limite dell’irregolarità, gli incroci sono meccanismi a noi sconosciuti, l’azzardo sembra più rapido della regola. Il corpo lanciato su una striscia possibile e spesso immaginaria: l’equilibrio in pista è contro natura, il moto è pratico e vantaggioso verso il centro, la forza, lo scatto, la brutale andatura di un duello serrato spingono la bicicletta verso l’esterno, come una centrifuga. Per questo il piano di legno s’inclina: per combattere la tendenza a scappare, e permettere una curvatura così pronunciata. Due ruote lanciate senza freni sono pericolose per natura, e le volate si fanno a 70 chilometri orari: anche ieri, le cadute, le scivolate, il crinale fra sport e conflitto superato, più volte. Nel velodromo si consumano vicende bellissime. Dolcezze e violenze, coraggio e furbizia, classe e volontà. Il ciclista non deve sconfiggere solo i rivali ma anche la resistenza del tempo, di un cronometro. Su strada, la fatica più infame è intervallata da momenti di pigrizia collettiva, di rilassamento, di ‘trasferimento’. In pista, perfino l’assenza di velocità è dolorosa per i muscoli: non si usa quasi più, eppure molti ricorderanno la strategia del surplace, quelle infinite attese prima di lanciarsi, per lasciare all’altro la responsabilità della volata, e pedalare nel suo solco”. Dunque, Viviani arrivò sesto ma ricordò a noi tutti che esisteva ancora questo sport antico e fiero, che aveva dato alla memoria del Paese campioni leggendari e “Sei giorni” che gli appassionati ricordano e tramandano. Un giorno di 9 anni fa Elia Viviani riuscì a declinare il tutto e l’ogni vincendo quella medaglia: fu a Rio e fu una competizione di valore assoluto, tecnicamente una delle maggiori medaglie della nostra storia olimpica. Credeteci: non c’è esagerazione. Viviani fu settimo nello scratch, terzo nell’inseguimento, primo nella gara a eliminazione, terzo nel giro lanciato, secondo nel “chilometro da fermo” che a Londra lo aveva tradito e nonostante tutto fu l’ultima prova, quella a punti a imprimere il ricordo indelebile in chi vide Elia cadere quand’era primo, rialzarsi, cambiare bici, tornare nella mischia, battere in volata Mark Cavendish . Rapito dall’estasi, posseduto dalla grazia e dal furore dell’uomo scampato alla tragedia, Viviani non si limitò a governare e si buttò dentro tutte le volate, vincendone molte, superando oltre a Mark anche Gaviria : uno show. Abbiamo insistito sulle prodezze sul legno dei velodromi ma tutti lo sanno: Viviani ha vinto anche sull’asfalto, campione europeo e italiano, tappe ovunque, sfiorò una Gand Wevelgem e fu battuto da Peter Sagan. Ma in pista ha sbozzato il suo monumento incoraggiando i giovani a far girare le ruote in queste orbite di 333 metri: e sono arrivati Ganna e i compagni dell’inseguimento. La memoria dello sport è una consegna di mano in mano, e niente viene tramandato se qualcuno lo trattiene: Elia allora ha scelto il momento perfetto per lasciare la festa, andarsene così quando dentro ancora suona la musica e qualcun altro ballerà.

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Elia Viviani si è inventato l’addio perfetto

Marco Bucciantini