Andre Iguodola nel 2015 uscendo dalla panchina a inizio serie vinse il premio di MVP delle Finals; lo scorso anno Shaun Livingston e Leandro Barbosa risultarono fondamentali nei primi due episodi della serie. Questa volta invece, chi può contare sulla panchina migliore?
Dopo l’analisi dei temi tattici principali, del peso del neo-arrivato Kevin Durant, dell’interrogativo su chi si prenderà cura di lui in casa Cavaliers, oltre alla storia di coach Mike Brown (uno dei tanti ex della sfida), resta da analizzare uno degli aspetti che hanno deciso il corso delle finali sia nel 2015 che nel 2016: il contributo garantito dalle due panchine. Per la seconda volta nella storia NBA ci saranno due allenatori di colore uno contro l’altro sul palcoscenico più importante della lega; la prima volta è accaduto nel 1975 nella sfida tra Washington Bullets e Golden State Warriors. Quella voltà finì 4-0 per i californiani, che sperano di bissare il successo nelle prossime settimane: “È incredibile come siano passati più di 40 anni e soltanto sei allenatori di origine afro-americana siano riusciti nell’impresa di vincere un anello – commenta Tyronn Lue, alla seconda apparizione consecutiva in finale -. È molto bello avere due coach come noi alle Finals quest’anno: sono felice di essere riuscito a ritornare su un palcoscenico così importante dopo il successo dello scorso anno e mi fa piacere anche per Mike Brown, uno di quelli che ho sempre rispettato, che finalmente adesso è in grado di potersi godere questa chance con gli Warriors”.
Lo studioso del gioco contro l’ex giocatore
L’esempio di coach Brown è quello dell’allenatore riuscito a conquistare la vetta della lega più competitiva al mondo, senza mai esserne stato un giocatore. Uno spiraglio che l’assistente allenatore ha visto grazie all’esempio dato da Bernie Bickerstaff, il primo afro-americano finito su una panchina NBA senza essere passato dal campo. Percorso profondamente diverso rispetto a quello compiuto da coach Lue, che non ha dubbi nell’indicare Doc Rivers come suo mentore: “Ogni volta che lo vedevo lui continuava a ripetermi: ‘appena finisci di giocare, puoi venire ad allenare assieme a me. Hai la stoffa per farlo’. A quel punto mi sono detto nel 2009, quando ho smesso di correre sul parquet, perché non chiamarlo? ‘Doc, a proposito di quella proposta da allenatore, mi piacerebbe provare…”. Il giorno dopo mi aveva già trovato un lavoro ed è da lì che sono sostanzialmente partito. Quello che sottolineava era che avevo qualcosa di particolare. Tutte le persone continuano a parlare per la maggior parte del tempo di tattica e schemi, ma la cosa più importante da fare in uno spogliatoio NBA è sapersi confrontare con le personalità e l’egocentrismo delle stelle e Doc vedeva in me una persona in grado di farlo. Riuscire a far capire a dei campioni sempre focalizzati su loro stessi cosa devono fare e il modo in cui farlo, spesso può fare la differenza”.
Il nodo Iguodala: come sta il numero 9?
Entrambi però dovranno cercare di ottenere il massimo supporto da utilizzare nei 12-15 minuti in cui diventerà decisiva la spinta in uscita dalla panchina. Golden State sia nel 2015 che nel 2016 ha vinto con margine la battaglia lo scontro tra i rincalzi, concedendosi il lusso di non schierare in quintetto nelle prime tre partite delle prime Finals quell’Andre Iguodala, diventato poi l’MVP delle finali dopo il trionfo, e dominando gara-1 e gara-2 dodici mesi fa soprattutto grazie al supporto dei vari Shaun Livingston e Leandro Barbosa, fondamentali nello spaccare in due il match in corso d’opera. Quest’anno però Iguodala, dopo una stagione che lo ha portato a essere sul podio nella corsa al premio di miglior sesto uomo, ha dovuto far fronte a diversi infortuni, oltre a problemi al tiro che ne stanno limitando l’impatto. In questi playoff il numero 9 viaggia con un drammatico 3/27 dall’arco; bottino ghiotto per i Cavaliers, che vista la coperta difensiva inevitabilmente troppo corta quando ti trovi di fronte Curry&company, avranno enorme piacere nel lasciarli ampio spazio per prendersi il tiro. Assieme al suo impiego, sarà poi decisivo come coach Brown deciderà di centellinare l’utilizzo di JaVale McGee, diventato un’arma letale sia dal pick&roll, che in alternativa nei pressi del canestro. In 126 minuti ha messo a referto uno stratosferico 125.4 di offensive rating, condito da un 37/50 al tiro (74%): una tentazione che lo stesso Steve Kerr dovrà trattenersi dal suggerire troppo spesso al suo assistente, rimanendo anche lui seduto al suo posto su quell’ideale panchina piazzata davanti uno schermo nello spogliatoio degli Warriors.
Se fosse solo questione di tiro dall’arco…
Cifre che impallidiscono però davanti a quanto raccolto dai Cavaliers quando Kevin Love e Kyle Korver condividono il parquet (131.7) e che diventano astronomiche nel momento in cui Tristan Thompson va a sedersi, lasciando spazio al numero 0. In quel caso il rating offensivo vola oltre i 147 punti su 100 possessi in 71 minuti; una situazione che Cleveland deve cercare in tutti i modi di rendere sostenibile, visto che nella metà campo difensiva le difficoltà di accoppiamento diventerebbero enormi, con Love incapace di proteggere in maniera convincente il ferro e allo stesso tempo non abbastanza mobile per accoppiarsi lontano dal ferro con i “piccoli” di Golden State. Coach Lue a quel punto potrebbe pensare di cogliere d’anticipo l’avversario, lanciando uno small ball estremo con LeBron James da centro (a occuparsi di Draymond Green e sui cambi di chiunque gli capiti a tiro) e con un rispolverato Richard Jefferson nel ruolo di anti-Durant: per lui fino a oggi in questa post-season 95 minuti sul parquet e nessun acuto particolare. Ma i playoff NBA sono così: puoi ritrovarti da un momento all’altro a ricoprire un ruolo da protagonista dopo essere stato un comprimario per settimane. Come andrà a finire? Inizieremo a scoprirlo tra poche ore, anche grazie alla diretta streaming eccezionalmente aperta a tutti sul sito skysport.it.