Dopo la sconfitta del 2012, l’ex stella degli Oklahoma City Thunder torna alle finali NBA con gli occhi del mondo addosso. Ma come sta vivendo l’attesa con l’appuntamento più importante della sua carriera?
Quando Kevin Durant nel 2012 vinse le finali di conference per la prima volta, sembrava destinato ad aprire una dinastia per gli anni a venire, ripresentandosi stagione dopo stagione all’appuntamento per il Larry O’Brien Trophy insieme a Westbrook, Harden, Ibaka e il resto dei giovani Oklahoma City Thunder. Per questo la sconfitta contro i Miami Heat di LeBron James venne presa tutto sommato bene, visto che James doveva ancora mettersi al dito il primo anello della sua carriera e aveva addosso molta più pressione rispetto a quanta ne avesse il 23enne KD. Cinque anni dopo, la situazione è completamente ribaltata: LeBron James è ancora all’inseguimento del Fantasma che giocava a Chicago, ma è più “sereno” dopo aver portato Cleveland al titolo lo scorso anno; al contrario, Kevin Durant ha gli occhi del mondo addosso dopo aver cambiato squadra nella scorsa estate, unendosi alla franchigia che lo aveva eliminato e passando da “face” a “heel”, per utilizzare la terminologia del wrestling. In questo terzo episodio della trilogia, è proprio Durant il personaggio-copertina delle finali, quello che più ha da vincere ma anche da perdere dalla serie che vivremo insieme dalla notte tra giovedì e venerdì in streaming su skysport.it eccezionalmente aperto a tutti.
La giusta prospettiva
Esattamente come per James cinque anni fa, Durant arriva a queste Finals con gli occhi del mondo addosso perché una eventuale sconfitta avrebbe effetti devastanti sulla sua carriera e sulla “percezione” del suo personaggio, quella che comunemente viene definita legacy. O almeno così sembra essere all’esterno, mentre in casa Durant tutto pare scorrere in maniera apparentemente placida, in linea con la natura rilassata di KD – che nonostante abbia modificato leggermente il proprio approccio in campo e fuori, rimane sempre un “Good Guy” nell’animo. In una lunga intervista con Yahoo, infatti, Durant ha risposto respinto al mittente l’idea che un eventuale titolo sia il culmine della sua vita, anzi. “Vincere non renderebbe completa la mia vita” ha dichiarato KD. “Ho tante cose che voglio fare e un sacco di cose che voglio raggiungere. Se io vincessi un titolo inizierebbe un’esperienza divertente nel momento esatto in cui la sirena suona la sirena, abbracciando i miei compagni negli spogliatoi e tutto il resto. Ma dopo quello, che cosa c’è dopo? Che cosa mi aspetta? Quello è un culmine, un’esperienza entusiasmante per due o tre settimane di sicuro, e la voglio provare. […] Ma non mi completerà assolutamente in quanto persona: sarà solo uno dei traguardi che raggiungerò nella mia carriera nella pallacanestro”. Il giusto approccio a una prospettiva di vita più ampia o un tentativo di scacciare un po’ di pressioni dalle sue spalle?
Il rumore dei nemici
Durant è evidentemente al corrente di tutto quello che viene detto e scritto su di lui, e ancor di più è consapevole di quello che si dirà e si scriverà nel caso in cui non vincesse questo titolo dopo tutto ciò che è successo in estate: “Sapevo che la reazione alla mia scelta sarebbe stata negativa, sapevo che molte persone mi avrebbero ‘odiato’, ma non so nemmeno perché. La gente si arrabbia anche senza motivo, perché sono sicuro che la mia scelta non ha avuto nessun effetto reale sulla loro vita. Per me, la mia famiglia e miei amici è stata una decisione fondamentale. Per tutti gli altri è stato un argomento di discussione, una chiacchiera da bar, roba che scrivi ai tuoi amici in chat quando sei annoiato. Dovranno comunque andare a casa il giorno dopo e andare a lavoro”. Curiosamente sono le stesse parole dette da LeBron James dopo la sconfitta nel 2011 contro Dallas (che gli procurarono enormi critiche), ma per il momento KD ha tenuto tutto sommato un atteggiamento zen su ciò che ha dovuto sopportare, almeno a parole: “È stato un anno diverso perché non mi sono mai sentito così tanto sotto la lente d’ingrandimento. Non ho mai sentito così tanta gente che aspettava che io sbagliassi qualcosa – che fosse in campo o fuori. So che molta gente dice che ho barato, che ho saltato dei passaggi e che ho falsato il gioco. Ma io lavoro tanto, prendo sul serio il mio gioco, amo questo sport e adoro giocare coi miei compagni. Mi piace giocare a pallacanestro. Ed è l’unica cosa che è importante: questa è la lezione più grande che ho imparato, e non pensavo che dovesse succedermi tutto quello che è successo per realizzarlo”. Per Durant, almeno stando a quello che ha detto, la separazione tra la carriera e la vita in generale è netta: “A 28 anni, sarei arrivato a questo punto della mia vita indipendentemente che io fossi stato a Oklahoma City o a Oakland. Quello che faccio nella pallacanestro è separato da ciò che faccio nella mia vita”.
Durant alla prova LeBron
Discorsi molto interessanti, specialmente perché non sempre sportivi di altissimo livello come Durant sono così aperti sulle proprie motivazioni, ma almeno in quella che KD definisce una “bolla NBA” il fatto che vinca o non vinca il titolo ha un suo peso. E per farlo deve riuscirci contro LeBron James, il giocatore contro il quale avrebbe dovuto creare una rivalità destinata a durare negli anni e che invece non ha più incontrato di nuovo dopo il 2012. Il bilancio tra i due parla di un netto 18-5 in favore del Re, che negli anni è sempre riuscito a rendergli la vita difficile e che nella serie avrà il compito improbo di cercare di fermarlo (tema tattico che abbiamo approfondito qui). Allo stesso modo, anche Durant però si troverà davanti all’impresa di fare la differenza contro LeBron James, marcandolo in difesa – almeno fino a quando non entra Andre Iguodala – e aiutando su di lui dal lato debole per proteggere il ferro quando non potrà arrivarci Draymond Green, probabilmente “tirato fuori” dall’area per la presenza di Kevin Love. KD è diventato col tempo un difensore di alto livello specialmente quando è chiamato ad aiutare in area, dove può sfruttare l’ottimo tempismo e le braccia infinite. Ma è chiaro che Durant dovrà fare la differenza soprattutto in attacco, punendo ogni singolo marcatore che non si chiami James e giocando da MVP, visto che è il favorito dai bookmakers per portarsi a casa il Bill Russell Award destinato al miglior giocatore della serie finale. Sarebbe il coronamento migliore per un’annata in cui si è sentito dire di tutto, in cui è stato definito un “Koward” e un “cupcake” dai suoi ex tifosi, in cui è stato fischiato in tante arene della NBA e messo in discussione come uomo prima ancora che come giocatore, non solo dagli haters sui social ma anche sui media. Vincere il primo titolo da MVP sarebbe di sicuro un bel modo per zittirli tutti. Ma alla fine, è davvero così importante?