Complementari per caratteristiche, altruisti per natura. Steve Kerr riassume così il segreto della sua nuova coppia Steph Curry-Kevin Durant, che sembra funzionare bene tanto in campo quanto fuori.
CLEVELAND — Insieme possono vantare 12 convocazioni all’All-Star Game, 7 inclusioni nel primo quintetto NBA, 5 corone di miglior realizzatore NBA, 3 titoli di MVP e un solo (ma ancora per quanto?) titolo NBA. Entrambi — Durant nel 2013, Curry nel 2016 — hanno chiuso una stagione centrando l’obiettivo del 40-50-90, ovvero tirando sopra il 50% dal campo, il 40% da tre punti e il 90% ai liberi. “Ovviamente stiamo parlando di due giocatori dal talento enorme”, ribadisce se ce ne fosse bisogno il loro allenatore, Steve Kerr, ma pur se è giusto che si parta da qui — dal riconoscere che si tratti di due marziani — il loro talento soltanto non basta a spiegare quello che Steph Curry e Kevin Durant stanno facendo e potrebbero fare in futuro per i Golden State Warriors e per la pallacanestro in generale. “Quello che sapevamo quando abbiamo firmato Durant in estate è che il suo inserimento sarebbe stato tutto sommato semplice — racconta coach Kerr — senza comportare grossi problemi. Diverso sarebbe stato se lui e Curry fossero stati due giocatori dominanti sul pallone, magari senza grande tiro da fuori. In quel caso allora sarebbe stato diverso”. Per spiegarsi meglio l’allenatore di Golden State non esita a utilizzare un paragone forte: “Un esempio può essere quello che è successo a Miami, con Dwyane Wade e LeBron James. Per loro è stato più difficile perché a quel punto della loro carriera entrambi erano più delle point forward, giocatori abituati ad avere la palla in mano — ed entrambi al tempo non erano due grandissimi tiratori da tre. C’è voluto un buon anno per farli funzionare bene assieme, finché non sono diventati quella stupenda coppia che tutti conosciamo”.
L’intesa in campo, l’intesa fuori
"Con Steph e KD però è diverso: sanno fare tutto — portar palla, tirare da lontanissimo, tagliare, giocare lontano dal pallone — ed è questo il motivo a mio avviso per cui la transizione è stata più semplice. Certo, c’è voluto comunque un pochino di tempo, ma credo che loro come giocatori siano naturalmente complementari. Entrambi altruisti, molto tranquilli — nel senso che non cercano i riflettori pur senza rifiutarli, perché non hanno certo timore dei palcoscenici più importanti. Credo siano diventati buoni amici”. “Amici?”, scherza Steph Curry sull’argomento. “Io quello lì proprio non lo sopporto”, dice il n°30 di Golden State col sorriso sulle labbra, prima di aggiungere: “Non è che ogni giorno sono a casa sua o lui a casa mia, ma ormai lo conosco dal 2009 e andando in battaglia al suo fianco da ottobre a giugno posso dire che Kevin è davvero un bel tipo, uno con un gran senso dell’umorismo. Oddio, a dire queste cose mi sembra di dover descrivere una ragazza con cui voglio uscire… [ride]. No, è davvero un gran ragazzo, mi piace passarci del tempo assieme”. Anche in campo, a sentire Steve Kerr, “perché loro si divertono a giocare assieme. Hanno capito entrambi il potere della loro unione: non stiamo parlando del bene dell’uno o del bene dell’altro, ma della forza della loro unione”. “Non si ferma solo a me e a KD — l’opinione al riguardo di Steph Curry — ma riguarda anche Klay [Thompson] o Draymond [Green]: ognuno di noi sa di poter continuare a essere se stesso e giocare come sa perché ognuno di noi porta sul tavolo qualcosa di diverso. I pezzi del puzzle in questo caso si incastrano in maniera davvero perfetta”. Perfetto come il record dei loro Golden State Warriors in questi playoff: 16 partite, 16 vittorie. Ne mancano due, e poi il conto dei titoli NBA vinti dalla coppie Curry-Durant salirà a tre.