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Taj Gibson e la maglia n°67: una prima volta per la NBA. Con un perché speciale

NBA
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L'ex n°22 di Bulls e Thunder, approdato ai Timberwolves, sceglie un numero speciale per la sua nuova maglia. Indosserà il 67 per un motivo particolare, e nessuno prima di lui lo ha mai fatto

La NBA storicamente fa iniziare le sue attività con la stagione 1946-47, anche se quell’anno – e i due successivi – il campionato è andato in scena sotto la sigla BAA, ovvero Basketball Association of America, il nome con cui la lega fu fondata il 6 giugno 1946. In quella primissima stagione, con la maglia dei Detroit Falcons, tale Moe Becker – una guardia/ala di 1.85 – scese in campo con il n°67. Da allora nessun altro giocatore ha mai più indossato sui parquet della lega questo particolare numero, che da quest’anno invece torna a essere protagonista sulle spalle di Taj Gibson, l’ala trasferitasi in estate da Oklahoma City a Minnesota. Una scelta dettata in primo luogo dal fatto che ai T’Wolves il 22 – il numero fin qui sempre indossato da Gibson – è di proprietà della stellina Andrew Wiggins, e quindi intoccabile. Ma oltre a questo c’è di più, e il primo a voler spiegare la scelta del nuovo è stato proprio l’ala agli ordini di coach Thibodeau, con due semplici parole: “Fort Greene”. “Fort Greene, Brooklyn, è da lì che vengo, dalle case popolari di Fort Greene. E chi viene dal mio quartiere sa cosa vuol dire il numero 67”. Ha a che fare con il sistema scolastico pubblico, che alle varie scuole cittadine associa un numero progressivo: la scuole elementare del quartiere è la P.S. 67 (P. S. sta per Public School) Charles A. Dorsey. E proprio durante una recente visita ai ragazzi della scuola, Gibson ha voluto chiedere consiglio su quale numero avrebbe dovuto scegliere con i Timberwolves. “Mi hanno consigliato il 67. All’inizio ho sorriso, ma poi mi sono detto: perché no? Lo faccio per loro, per quei ragazzi, per rappresentare loro e il quartiere da cui provengo”. Un luogo non facile, dove la violenza la fa spesso ancora da padrona. “Voglio che il messaggio, quando mi vedono giocare con quel numero, sia: se lui ce l’ha fatta a uscire da qui, allora possiamo farcela anche noi”. Una scelta appoggiata anche dal suo allenatore, che con Gibson ha un rapporto particolare già dai tempi di Chicago: “Coach Thibs è venuto a un paio di funerali di miei amici che hanno perso la vita nel quartiere. Sa di che tipo di zona si tratta, ha visto com’è. E sa benissimo il motivo per cui lo faccio”. L’ala di Minnesota non ha mai fatto mistero di un’adolescenza non facile, per le strade di New York, tanto che per farcela “ho dovuto seguire l’esempio di Jamal Tinsley, e lasciare la mia città per andare in California [Gibson è andato al college a Los Angeles, a USC, compagno di stanza per anni del nostro Daniel Hackett, ndr]”. La sua carriera NBA poi l’ha portato a Chicago, a OKC e ora nel Minnesota, ma New York – e in particolare Fort Greene – nel bene e nel male rimane nel suo cuore. Un rapporto speciale, tanto per lui che per tutti quelli che vedendolo avere successo sui parquet NBA trovano ispirazione per la loro vita di tutti i giorni.