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Arvydas Sabonis, il Principe del Baltico

NBA

Francesco Tonti

Arvydas Sabonis, sette stagioni in NBA tra il 1995 e il 2003 sempre con la maglia dei Portland Trail Blazers (foto Getty)
sabonis

La storia della leggenda lituana e l'importanza della sua figura nello sviluppo del basket intercontinentale, dai successi negli URSS fino all'approdo nella NBA

"In slang russo si utilizza il termine 'Sabonis' per indicare una bottiglia di Vodka di dimensioni generose,
in onore del celebre giocatore"
Urban Dictionary

Da oltre 500 anni la figura che ha ispirato il moderno Babbo Natale, vale a dire San Nicola, è il patrono della città di Kaunas, nonché ovviamente il personaggio più importante per la “piccola Parigi” baltica. Per celebrarlo degnamente, la città affronta le festività di fine anno con uno slancio sconosciuto alle principali capitali europee: le attrazioni più celebri sono i suoi alberi, vere e proprie opere d’arte che anno dopo anno vengono realizzati con temi sempre nuovi e originali. L’albero del 2017 ad esempio, celebra l’ecologia e funziona grazie all’energia proveniente da fondi di caffè.

Da qualche decennio però il primato cittadino è messo a dura prova dalla concorrenza di un giocatore di pallacanestro. Un atleta distante dalla santità, ma comunque un potente catalizzatore del sentimento di riscatto che ha pervaso la storia recente della Lituania. Un singolare e amato ambasciatore del gioco che ha stravolto polverosi stereotipi e contribuito ad abbattere storici pregiudizi sui giocatori del Vecchio Continente. Si tratta di Árvydas Rómas Sabónis: un irripetibile concentrato di talento segnato dalla Guerra Fredda, con un carattere introverso ma una straordinaria caparbietà.

La doppia Guerra Fredda (URSS vs USA e Lituania vs URSS)

Secondo la biografia ufficiale, uno dei centri più influenti del ventesimo secolo scopre il basket con discreto ritardo. Il colpo di fulmine scocca in prossimità dei 13 anni, il primo contatto con una delle nazionali juniores più selettive del globo intorno ai 15. Il titolo di campione del mondo FIBA si materializza in Colombia con la maglia URSS nel 1982, superate da poco le 17 primavere. Quando raggiunge la maggiore età è già considerato l’arma totale dei sovietici in uno dei momenti più aspri della tensione con gli Stati Uniti.

Arvydas sopporta con malcelato disprezzo la divisa con la sigla “CCCP”: il regime ha costretto diversi componenti della sua famiglia in Siberia e Kaunas, la città da cui proviene, è da sempre una delle più ribelli al Politburo. L’eco assordante dei suoi primi passi nel mondo dei professionisti nel 1981 scuote alla base i lituani, che lo trasformano rapidamente in un simbolo: il basket è un collante formidabile per il piccolo paese baltico e sin dagli anni ‘20 la pallacanestro è il culto pagano per eccellenza. Con il suo debutto cominciano a decollare le prospettive dello Žalgiris, un vero e proprio baluardo della resilienza e delle feroci aspirazioni indipendentiste del territorio. I risultati non si fanno attendere e ben presto la compagine con la casacca biancoverde comincia farsi valere dopo anni di sofferto anonimato: il club si contrappone all’egemonia del CSKA (Club Sportivo Centrale dell'Esercito), la celebre quanto famigerata polisportiva di Mosca. Sabonis e compagni si rifiutano fermamente di approdare nella squadra dell’Armata Rossa, una sorta di “Super Team” clone della rappresentativa URSS. Una maglia, quella della nazionale, che però sfortunatamente non possono fare a meno di rappresentare a livello internazionale.

Definito il contesto, è necessario inquadrare il campionario di qualità tecniche e fisiche che hanno stregato due generazioni e mobilitato buona parte della NBA, sgretolando antiche barriere tanto geografiche quanto tecniche. Sabonis sfrutta nel migliore dei modi l’avanguardia della scuola lituana, capace di forgiare nello stesso periodo un altro meraviglioso atipico come Sarunas Marciulionis. Arvydas miscela fondamentali cristallini e una sorprende fantasia: in principio affina classici movimenti in post, tra cui spicca uno gancio cielo di eccellente fattura, ma in rapida sequenza sviluppa una singolare ed efficace predisposizione al palleggio-arresto-e-tiro. La conoscenza e la comprensione del gioco sono da riferimento assoluto per ruolo e caratteristiche, e inevitabilmente le doti di passatore sono strabilianti, fattore che accompagna e amplifica con un controllo del corpo e una padronanza della palla a spicchi di grana finissima.

Sabonis è in grado di giocare spalle a canestro per sfruttare gli oltre 220 centimetri - in vernice utilizza con acume un enciclopedico l’utilizzo del piede perno e un curioso quanto anticonvenzionale sottomano rovesciato - e altrettanto efficacemente è capace di stazionare lontano dal ferro per dissezionare le difese con un tiro piazzato dalla media o una tripla, precorrendo il concetto di lungo moderno. Nella sua metà campo è naturalmente efficace grazie ad altezza e doti dinamiche, anche se il talento in questo caso specifico è meno nitido, pur restando agevolmente sopra media. Le sue prestazioni sono caratterizzate da una teatralità giocosa (da NBA di alta scuola) che gli procura enormi vantaggi psicologici con gli avversari - caratteristica che spesso sfoggia anche con gli arbitri, tanto da ricorrere a occasionali passi di robot dance o stralunati siparietti per eludere un fallo tecnico.

Raggiunti picchi altissimi in età molto verde, Sabonis definisce il suo gioco con una creatività che trafigge il cuore del pubblico. Gli scout che lo visionano nelle prime apparizioni internazionali descrivono i suoi assist con una meraviglia e un disincanto quasi adolescenziale. Sabonis è un giocatore che, tra le mille altre cose, ha un dono rarissimo: cattura e solletica l’immaginazione come la tela di un artista, semplicemente incanta. In qualche occasione si dimostra capace di giocare con profitto anche nella posizione di ala forte per la contemporanea presenza del gigante ucraino Vladimir Tkachenko. Le qualità tecniche si associano a un “telaio” che prima di lui raramente ha fatto capolino sul parquet.

Al massimo della sua efficienza fisica il Principe del Baltico dispone di un corpo asciutto, buona mobilità laterale e notevole capacità di corsa. Ci sa fare anche in fase aerea, grazie a un’esplosività (probabilmente sopravvalutata) che ha ben poco da invidiare alla media degli esterni del suo tempo. In sintesi: è il più grande talento mai comparso sulla scena del Vecchio Continente e fa sembrare obsoleto tutto quello che lo circonda. I suoi veri limiti sono definiti dalla pigrizia: sono famose le sue letargiche transizioni difensive e molto criticata la sua rivedibile continuità. Un altro fattore che lo penalizza è l’eccessiva accondiscenza al demone della vodka e alle attrazioni di Bacco in generale. Ma lo specimen fisico è talmente distante dai canoni dell’epoca - l’unica pietra di paragone in termini di avanguardia pura è forse la struttura e la coordinazione del primo Antetokounmpo - da lasciare senza fiato. Per gli occidentali è la personificazione vivente degli stereotipi più classici attribuiti ai super atleti dietro la cortina di ferro, luoghi comuni ben sintetizzati dal personaggio di Ivan Drago, storico antagonista disegnato da Sylvester Stallone in Rocky IV nel 1985.

La preziosa arte della diplomazia anticipa la Perestrojka

Gli scout NBA si innamorano perdutamente di lui nel 1982, un anno che segna in qualche modo la rincorsa della globalizzazione nel mondo della palla a spicchi. Il lituano compare sul suolo statunitense in occasione di una serie di partite esibizione e percorre diverse tappe in compagnia di una selezione URSS: in questo modo ha l’occasione di sfidare Ralph Sampson (che si difende con onore ma perde il confronto diretto) e la copertura televisiva scatena ondate di entusiasmo nel paese del vecchio Zio Sam. Nella gara amichevole che gioca contrapposto alla prima scelta del Draft 1983 Sabonis accumula 25 punti, 8 rimbalzi e 3 stoppate. Le statistiche sono altisonanti, ma più di tutto impressiona la fluidità del suo gioco: viene immediatamente coniato lo slogan di “guardia più alta del mondo” per rendere al meglio le sue qualità. Per la prima volta i depositari per eccellenza del basket hanno la percezione che uno dei suoi migliori interpreti si aggiri in Europa.

Diversi allenatori universitari cominciano a sognare un clamoroso reclutamento nonostante la guerra fredda e la mancanza di solidi contatti in Russia. Fa scalpore il tentativo di Dale Brown (coach di Louisiana State) che si spinge a scrivere a Gorbaciov e Reagan per suggerire un fantomatico programma di scambi culturali tesi a migliorare la relazioni diplomatiche. L’idea di fondo è quella di replicare il successo della celeberrima “Diplomazia del Ping Pong”, operazione orchestrata da Kissinger durante l’amministrazione Nixon. Ambasciatori, faccendieri, sottosegretari: un piccolo esercito di possibili intermediari viene contattato da franchigie e agenti per avvicinare l’entourage del giocatore.

Le leggende delle panchine universitarie Pete Newell e Bobby Knight si scambiano di continuo telefonate in cui condividono informazioni e particolari sulle qualità del giovane fenomeno, considerato più versatile e talentuoso di Patrick Ewing, pietra di paragone per eccellenza. Le due squadre NBA più attive nella sua rincorsa, gli Atlanta Hawks e i Portland Trail Blazers, lo vedono come un antidoto ideale all’egemonia Lakers/Celtics: Atlanta cerca di bruciare la concorrenza sul tempo, ma vede invalidata la sua scelta al Draft 1985 con la pick numero 77 (annullata per la violazione dell’età minima) e continua successivamente a sperimentare consolandosi con la scelta di Volkov e allacciando importanti contatti con Marciulionis.

A conquistare i suoi diritti è Portland che azzarda con coraggio una chiamata alla fine del primo giro 1986. La selezione sorprende uno stralunato e sarcastico David Stern, incapace di  mascherare un evidente disappunto al momento dell’annuncio. Poco dopo va in scena il mondiale spagnolo in cui Sabonis incrocia per la prima volta David Robinson: si materializza una battaglia epica tra due dei centri più agili e dinamici comparsi sul campo da gioco fino a quel momento. Il confronto si chiude con un sostanziale pareggio in cui i due fuoriclasse - 20 punti, 7 rimbalzi e 4 stoppate per lo statunitense, 16 punti, 13 rimbalzi e 4 stoppate per Sabas - si scambiano malagrazie assortite, trascinando i rispettivi compagni. Il mondiale, vinto sul filo di lana dagli USA, sembra essere il prologo di una grande avventura NBA. Ma a conti fatti si rivela l’ultima apparizione di Arvydas Sabonis al massimo delle possibilità fisiche in una manifestazione internazionale. Un parziale canto del cigno.

Il tallone d’Achille

Il clamoroso battage mediatico che lo circonda quando gira per il mondo è spesso difficile da gestire e ne sottolinea la durezza nonché la natura introversa. Vive sospeso, a tratti come una rockstar, grazie al trattamento che gli garantisce la squadra di club (leggendari aneddoti circondano le lunghe trasferte in Russia con avventure di ogni tipo) o come un recluso nella spietata gabbia della rappresentativa URSS. La sua parabola sportiva si sviluppa naturalmente intorno alla rivalità con il CSKA, le coppe in Europa e la spasmodica attività con la nazionale che osserva un calendario e un regime di allenamento terrificante.

Dopo due serie finali sfumate a beneficio degli arcirivali nel 1983 e nel 1984, lo Zalgiris raggiunge finalmente il titolo e lo mantiene per tre anni di fila tra il 1985 e il 1987. Nello scenario continentale i portabandiera lituani raggiungono la finale della Saporta Cup ‘85 (persa contro il Barcellona) e quella di Coppa Campioni, dove si arrendono al Cibona di tale Drazen Petrovic l’anno successivo. La squadra di Kaunas ha modo di rifarsi poco dopo quando aggiunge in bacheca la William Jones Cup, dove incrocia nuovamente lo spiritato Mozart dei canestri nella vittoriosa semifinale.

A livello internazionale viene massicciamente impiegato dai sovietici, anche se è costretto a saltare le Olimpiadi del 1984 (dove avrebbe incrociato Michael Jordan) per il famoso boicottaggio orchestrato dal Cremlino. Nelle partite con l’URSS gioca spesso infortunato, senza alcun tipo di riguardo o cautela. In più di qualche occasione, terminati gli effetti degli antidolorifici, i compagni di squadra lo aiutano a salire sull’autobus o sulle scalette di un aereoplano. Nell’estate del 1987 durante il solito stage estivo con la nazionale si procura la rottura completa del tendine d’Achille della gamba destra; un infortunio gestito in modo pessimo che  segna indelebilmente il resto della sua carriera.

Trasportato in modo avventuroso in ospedale, trascorre un paio di giorni aspettando le cure dei migliori specialisti di Mosca, eppure nessuno si presenta nel reparto in cui è ricoverato. Viene spedito come un pacco postale in Lituania dove lo aspettano le cure di chirurghi che non hanno mai affrontato un’operazione del genere. Dall’apparato centrale arrivano le istruzioni del caso per mezzo di un apparecchio telescrivente con tanto di autografi di un gruppo di luminari del regime. È lui stesso a rincuorare i dottori, responsabili del benessere di un amato patrimonio nazionale. Altrettanto complesso si rivela il delicato processo di riabilitazione: non ci sono procedure standard e trovare fisioterapisti disposti ad assumersi la responsabilità del recupero è una piccola impresa. Qualche mese dopo, il tendine d’Achille cede nuovamente in seguito a una banale corsa sulle scale (anche se i pettegolezzi sulla natura del nuovo incidente si concentrano sulle conseguenze nefaste di qualche serata brava) e si rende necessaria una nuova operazione.

Cominciano a circolare dubbi di ogni genere e molti dottori sono convinti che la sua carriera sia finita. Addirittura più di qualcuno è convinto che sarà costretto a zoppicare per il resto della sua vita.

Il salvataggio di Portland

L’inevitabile serie di polemiche e rimpalli che seguono il secondo infortunio complica ulteriormente rapporti già tesi come corde di violino. La federazione sovietica si dimostra scettica sul rientro del giocatore ed è decisa a monetizzare grazie agli effetti della Perestrojka: la soluzione più semplice sembra scaricare il problema agli americani e incassare per il disturbo. A Kaunas però nessuno ha intenzione di lasciarlo partire e viene respinto con fermezza ogni approccio delle squadre NBA. Portland riesce a trovare un compromesso in grado di accontentare entrambe le parti: la franchigia offre l’assistenza medica necessaria e invita il giocatore oltre oceano per un programma di recupero completo. L’accordo non prevede alcun tipo di obbligo per lo Zalgiris, che a malincuore concede la sospirata autorizzazione.

I Blazers ricevono il supporto di Stern e degli Hawks controllati da Ted Turner. Il celebre magnate delle telecomunicazioni si assume l’onere dei primi trattamenti e dei delicati esami specifici al martoriato tendine. Superate con successo le prime cure ad Atlanta, Sabonis si trasferisce in Oregon nella primavera del 1988 in compagnia del dottor Kestutis (il chirurgo che lo ha operato due volte di fila) che assolve persino la funzione di interprete grazie al suo fluente inglese. I medici sociali di diverse squadre NBA lo esaminano e contribuiscono ad arricchire il percorso di guarigione coordinato da Robert Cook, già pratico di casi di una qual certa complessità come quelli di Bill Walton e Sam Bowie.

Il prestigioso paziente si gode un trattamento di lusso: ottiene una Jeep, un appartamento con idromassaggio, un registratore e la TV via cavo. L’obiettivo è semplice: sedurlo e convincerlo a firmare per l’anno successivo. Impazzisce letteralmente per Top Gun con Tom Cruise e per la frutta fresca (è solito acquistare quantità clamorose di banane) che in Lituania sono difficili da trovare. In diversi mesi di duro lavoro, i risultati vanno al di là delle più rosee previsioni e le condizioni generali cominciano ad avvicinarsi ai livelli della stagione precedente: la parte peggiore del calvario sembra ormai alle spalle.

Il trattamento da stella ammorbidisce il suo approccio con la stampa e per la prima volta affiora in superficie un’ironia e una personalità che conquista gli addetti ai lavori. Turner lo utilizza persino come testimonial per i Goodwill Games. Il quadro medico è semplice: quando riceve il via libera per tornare in patria è ancora a 2-3 mesi di distanza dalla completa guarigione. I medici gli fanno chiaramente intendere che partecipare alle imminenti Olimpiadi potrebbe compromettere seriamente carriera e mobilità a lungo termine. Portland, nel frattempo, gli propone un generoso contratto per la stagione 1988-89 e raggiunge un accordo verbale suggellato da una stretta di mano, con la squadra che si impegna persino a fargli recapitare le carte con l’opportuna traduzione in lituano. L’unica condizione richiesta dagli americani è il riposo seguito da un blando recupero fino all’autunno successivo.

Il Trionfo Olimpico                                        

Al suo ritorno viene allestita una conferenza stampa: Arvydas ne approfitta per rassicurare i connazionali sullo stato fisico ma specifica di essere distante dal recupero completo. La nazionale sovietica lo invita a partecipare al camp di preparazione per Seoul ‘88 in qualità di semplice ospite. L’eterno coach Gomelski, considerato il John Wooden russo, ha ben chiaro come motivare la sua truppa e sceglie di far leva sul fattore economico: promette ai migliori componenti del roster l’autorizzazione e il suo aiuto personale per il trasferimento all’estero in caso di medaglia d’oro. Sabonis ha cominciato a correre da pochi giorni e come previsto resta a osservare il lavoro dei compagni, limitandosi a qualche consiglio e agli incoraggiamenti di rito. Dopo qualche settimana di allenamenti, viene invitato a giocare nelle varie partitelle. Ripresa parzialmente la solita routine e ben consapevole dei rischi, si dichiara pronto per partecipare alla manifestazione olimpica - una decisione che manda su tutte le furie la dirigenza dei Blazers. Il ripensamento repentino non è mai stato chiarito completamente: il più delle volte l’argomento è stato liquidato con un laconico «La gamba è mia, mia è la decisione». L’insperato rientro entusiasma tutti i componenti del roster che senza il suo apporto rischiano di precipitare fuori dalla zona medaglia, lontano dagli ingaggi dei campionati esteri. “Sabas” rischia di fare esattamente l’opposto a prescindere dal risultato.

In Corea la nazionale sovietica si dimostra un feroce schiacciasassi. Gioca senza risparmiarsi e getta in campo un cattiveria del tutto inedita che trascina la squadra. Quando i ritmi di gioco indiavolati del torneo lo mettono in crisi, compensa con un’aura e una personalità che sorregge i compagni nei momenti più complicati. In semifinale la timida nazionale USA (composta esclusivamente da universitari) viene spazzata via senza troppi complimenti. Gli americani si aggrappano al solito David Robinson come nel Mondiale 1986: la battaglia in vernice è nuovamente equilibrata (doppia cifra per entrambi con un leggero vantaggio nei punti segnati per l’Ammiraglio) e l’inerzia della sfida si decide dal confronto sul perimetro. Coach Olson non trova rimedi efficaci al collaudato gioco degli esterni URSS e affonda sotto i colpi di Rimas Kurtinaitis (28 punti) e Sarunas Marciulionis, che distruggono Bimbo Coles e Mitch Richmond. In finale la sfida con la Yugoslavia di Petrovic (24 punti) è vinta più facilmente del previsto (76-63) con Sabas (20+15 rimbalzi) che ha buon gioco contro Divac e il resto dei giocatori interni.

L’URSS vince l’oro, i festeggiamenti nel villaggio olimpico durano tre giorni e coinvolgono gli atleti di quasi tutte le discipline. Il clima amichevole contribuisce a distendere i rapporti tesi tra Sabonis e Petrovic, storicamente contrapposti per il primato di miglior giocatore europeo. Per qualche osservatore il rendimento e il suo esempio complessivo sono uno dei principali motivi della creazione del Dream Team del 1992: gli Usa infatti non possono permettersi altre figuracce.

La carriera spagnola, l’acqua di colonia e la seconda Olimpiade

Sabonis, però, si presenta ai nastri di partenza della stagione 1988-89 letteralmente a pezzi. Le prevedibili conseguenze fisiche e la mancanza di cure adeguate si fanno sentire. Sfumata la possibilità di approdare ai Blazers, cede alle pressioni dello Zalgiris e resta a Kaunas, ma l’annata scivola via con tanti problemi alle articolazioni (ormai cronici) e senza alcuna soddisfazione sportiva degna di nota. Urge un  provvidenziale cambio di scenario almeno in Europa, ma scarseggiano i pretendenti. Coach Gomelski si propone come intermediario con le società iberiche di maggior prestigio, ma purtroppo il recente rendimento in chiaroscuro e i dubbi sulle sue condizioni congelano irrimediabilmente l’interesse dei top club.

La situazione è in pericoloso stallo e la carriera del Principe del Baltico conosce una svolta solo grazie all’intraprendenza del Forum di Valladolid, una piccola squadra spagnola con robuste ambizioni. Il vulcanico presidente Gonzalo Gonzalo mette assieme un budget faraonico che rende possibile il trasferimento. Propone e successivamente finalizza un accordo commerciale con la casa di profumi milanese Victor, marchio creato dal celebre specialista Visconti di Modrone: Gonzalo concede lo sfruttamento dei diritti del nome Sabonis al marchio italiano per il lancio di un nuovo prodotto e riceve in cambio la maggior parte del milione di dollari necessario per l’operazione. Il giocatore inchiostra un contratto annuale di 700mila dollari (al tempo ingaggio di rilievo anche per la NBA) e la federazione russa ne incassa circa 300mila per liberare il suo pupillo. Per agevolare il tutto viene inserito nell’affare anche il fido compagno di squadra Homicius che firma per 75mila. Nel giro di poche settimane i negozi di lingua spagnola mettono in bella mostra le scintillanti confezioni della nuova colonia per uomo “Triple de Sabonis”.

Valladolid lo tratta con onori degni di un dignitario di stato e si prende cura nel suo precario stato di salute. Arvydas è consapevole di non poter sopportare i rigori di una stagione NBA anche se deve compiere ancora 25 anni, ma si cala completamente nella nuova realtà, desideroso di ripagare la fiducia. Resta per ben tre stagioni, anche per la qualità delle cure dello staff medico che lo aiuta a risolvere definitivamente il problema al tendine d’Achille. Una nuova operazione è organizzata nel 1990 per rimuovere le varie calcificazioni dovute agli affrettati recuperi. Costretto a modificare buona parte del suo gioco, “l’orso” (soprannome che gradisce poco) utilizza questo periodo per costruire la seconda parte della carriera.

L’affidabilità delle sue articolazioni torna su buoni livelli mentre evapora quasi del tutto esplosività e mobilità laterale. È ovviamente meno dinamico e qualche volta l’appoggio del piede destro denuncia una postura sempre più claudicante, ma la sensibilità dei polpastrelli invecchia come il buon vino e sembra persino migliorare con il passare del tempo, sebbene il peso cominci a lievitare progressivamente fino a toccare quota 130 chili. Il suo stile sul parquet diventa molto più sobrio e pacato, ma quello che non cambia è il rendimento da illuminato monarca del gioco. Mancano le vittorie, ma il triennio è pieno di soddisfazioni per i traguardi raggiunti in campionato e nelle coppe. Gonzalo (commerciante nel ramo dell’illuminazione) gli fa persino gestire un negozio di lampade alla moda nel centro città.

Dopo tre anni a buon livello, la ricostruzione della sua immagine è ormai completa. Come prevedibile arriva la chiamata del Real Madrid, squadra costruita per primeggiare e che gli consente di rimpinguare la galleria dei trofei. Nella prima stagione nella capitale “Sabas” vince la Liga e si riaffaccia nuovamente nella finale nel massimo torneo continentale. Fa splendida coppia con Joe Arlauckas con cui forma uno dei frontcourt più talentuosi del basket europeo. L’anno seguente i madrileni vincono ancora il campionato, ma la soddisfazione più grande arriva nel 1995, con il sospirato trionfo in Eurolega e il titolo di MVP.

La permanenza in terra iberica gli consente di restare in contatto con la madrepatria e di partecipare attivamente al progetto della nuova nazionale lituana per le olimpiadi del 1992, dato che l’URSS è ormai in disfacimento. Marciulionis (in NBA da diverse stagioni) spalleggiato da Donnie Nelson si preoccupa di trovare il necessario sostegno economico. Supporto che arriva dal gruppo rock psichedelico per antonomasia, i Grateful Dead, probabilmente con la regia sapiente di Bill Walton. La band stacca un assegno in grado di coprire i costi delle qualificazioni e sopratutto cede i diritti di una della t-shirt più vendute nei primi anni Novanta. Arvydas si occupa della parte diplomatico/politica e nel corso di diversi viaggi in Svizzera alla sede del Comitato Olimpico Internazionale convince il potente Samaranch della bontà del progetto.

Barcellona è completamente travolta dall’effetto del Dream Team americano, ma la vera storia di copertina è senza dubbio quella di “Sabas” e compagni, capaci di conquistare un incredibile bronzo e di dichiare ufficialmente la rinascita del paese al mondo intero. Con parte dei battaglioni sovietici ancora a presidiare il territorio, la palla a spicchi contribuisce a gettare le basi del nuovo tessuto socioculturale. Sabonis, decisivo nella finale per il terzo posto, eccede con i festeggiamenti e nessuno dei compagni è in grado di trascinarlo alla premiazione sul podio: genio e sregolatezza come nelle migliori tradizioni.

Finalmente la NBA

Dopo sei anni in Spagna, il vecchio continente comincia ad andare stretto alla stella del Real Madrid. Il GM dei Blazers gli propone di affrontare finalmente la sfida NBA e vola da lui per illustrargli il suo progetto tecnico. I tempi sembrano finalmente maturi: il giocatore intende saldare il suo debito di riconoscenza ed è genuinamente curioso di confrontarsi con i migliori del mondo. Gli esami medici sono poco incoraggianti: da un punto di vista strettamente ortopedico il Principe del Baltico è ormai un disastro; in teoria non potrebbe nemmeno vedere il campo, ma il suo rendimento continua ad affermare l’esatto contrario e nessuna delle parti in causa intende rinunciare alla firma.

Debutta a 31 anni in una squadra problematica ma imbevuta di talento. Nel corso delle sue sette stagioni (sempre segnate da qualificazioni ai playoff) si affianca a stelle di prima grandezza (Rasheed Wallace, Damon Stoudamire, Steve Smith, Scottie Pippen) che gli consentono di valorizzare al meglio le sue doti di passatore e di playmaker occulto. Dinamico ormai come può esserlo una statua di bronzo, riesce ad imporsi grazie alla lucidità delle sue letture e alla proverbiale immaginazione. Il repertorio che può utilizzare è quasi sconfinato e la nutrita valigia di trucchi del mestiere manda in brodo di giuggiole la platea del Rose Garden; il pubblico imparziale poi impazzisce per le sue improvvisazioni jazzistiche e per i raffinati movimenti offensivi, finalmente svelati al palcoscenico sportivo più mediatico del globo.

Conquista una folta schiera di fedelissimi che ne celebra le giocate più tecniche e spettacolari sviluppando un tipo di celebrità molto simile a quella di Manu Ginobili. Riesce in un’impresa tipica dei grandi: è completamente differente dal resto della nutrita e qualificata concorrenza, sembra in grado di reinventarsi all’infinito anche se il passo a scartamento ridotto e la limitata agilità gli nega di fatto la possibilità di trascinare i tormentati Blazers verso l’irraggiungibile titolo.

Sul suo percorso incrocia Shaquille O’Neal al culmine della carriera e fa in tempo a confrontarsi con la generazione che sta inesorabilmente cambiando le prospettive dei giocatori interni come Chris Webber, Tim Duncan o Kevin Garnett. Mette assieme statistiche di assoluto pregio e in più di qualche occasione si dimostra più efficace dei compagni nei playoff NBA. Quando riparte alla volta di  Kaunas lo fa ancora una volta per correre in soccorso della squadra del cuore, giunta vicino al pericoloso ciglio del fallimento.

Nella sua ultima avventura agonistica (2003-04) con lo Zalgiris firma al minimo salariale e sfiora una storica vittoria in Eurolega. Tanto per cambiare vince il premio di miglior giocatore della fase regolare e delle Top 16. Infinito. Semplicemente infinito.

Le domande di rito

Quale carriera potrebbe vantare oggi in caso di una normale gestione dei suoi infortuni?  Il suo potenziale impatto avrebbe potuto riscrivere buona parte della storia NBA successiva al primo ritiro di Michael Jordan? Con lui al timone i Blazers dei primi anni Novanta (finalisti nel 1992) avrebbero sbaragliato la concorrenza anche con MJ?  Cosa poteva essere, davvero, Arvydas Sabonis?

Domande che fanno spesso capolino nella testa degli appassionati e destinate a non trovare una risposta sensata. Il suo carattere e la rivedibile attitudine della prima parte della carriera suggerisce cautela, ma la straordinaria forza di volontà della seconda autorizza più qualche volo pindarico. La cosa più importante è non trascurare il patrimonio tecnico e umano accumulato in più di venti anni di attività - un retaggio che va ben oltre lo sport, come sanno bene in Lituania. Un’icona simile non merita di veder annacquata la sua eredità da punti interrogativi o banali chiacchiere da barbiere: immaginare un percorso diverso è inutilmente fuorviante, perché le difficoltà che ha dovuto superare lo hanno profondamente segnato e reso il personaggio inimitabile di oggi.

Come ricordava Oscar Wilde: le follie sono le uniche cose che non si rimpiangono mai.