In un incontro di squadra prima dell'allenamento, i compagni hanno messo in dubbio la legittimità del malore provato da Kevin Love, andato via dalla debacle con gli Oklahoma City Thunder durante l'intervallo e assente il giorno dopo in allenamento. Solo quando il lungo ha potuto spiegare le sue ragioni la situazione è tornata a calmarsi
Una situazione drammatica come quella attuale i Cleveland Cavaliers da quanto è tornato LeBron James non l’avevano mai vissuta. Ed era inevitabile che prima o poi la ricerca di un “capro espiatorio” avrebbe colpito qualcuno. Quel qualcuno nelle ultime stagioni è quasi sempre stato Kevin Love, almeno all’interno dello spogliatoio: se qualcosa non andava, la colpa era quasi sempre sua — e inevitabilmente il suo nome era sempre il primo a finire tra i rumors di mercato per un possibile addio. Per questo la notizia riportata da Adrian Wojnarowski di ESPN stupisce solo fino a un certo punto: in un acceso incontro prima dell’allenamento di lunedì, diversi giocatori dei Cavs hanno messo in dubbio la legittimità del malore provato da Kevin Love sabato nel corso della debacle contro gli Oklahoma City Thunder, che non solo gli ha fatto abbandonare la partita dopo tre minuti ma lo ha anche portato ad allontanarsi dalla Quicken Loans Arena e a saltare l’allenamento del giorno dopo. L’incontro descritto da Wojnarowski sarebbe stato dai toni alti e intensi e comprendeva la presenza anche dell’allenatore Tyronn Lue e il General Manager Koby Altman, ma si sarebbe calmato non appena Love ha preso la parola per spiegare le sue ragioni. Pare anche che questa presa di posizione del lungo abbia portato la squadra a dirsi in faccia delle cose che erano rimaste irrisolte in uno spogliatoio diviso in frazioni, con le colpe che venivano attribuite di volta in volta a tutti i soggetti coinvolti — da Love ad Isaiah Thomas, da coach Lue alla dirigenza fino al proprietario Dan Gilbert. Normale quando una squadra con ambizioni di titolo è reduce da sei sconfitte nelle ultime otto gare e ha un record di 27-18, più vicina all’esclusione dai playoff (cinque partite di vantaggio sul nono posto) che dal fattore campo nella Eastern Conference (sei gare di distanza dal primo posto dei Boston Celtics).