In una stagione difficile, il rookie finlandese si sta rivelando una delle note più liete dei Chicago Bulls: scopriamo da dove viene e dove può arrivare attraverso le parole del suo connazionale più famoso, Hanno Möttölä.
“Lauri Legend”. “The Finnisher”. “The Marksman”. Ma si potrebbe anche parlare di “Grande Speranza Bianca” e non suonare nemmeno blasfemi. Perché Lauri Markkanen, accumulando triple e nomignoli, è diventato un punto fermo per i Chicago Bulls. Il più importante, in un presente confuso e un futuro ancora più incerto. Arrivato nell’indifferenza generale, parte di uno scambio che ha suscitato malcontento e frustrazione per i tifosi dei Bulls in ogni angolo del globo complice la cessione di Jimmy Butler, il lungo finlandese si è rivelato una giovane macchina da canestri in grado di frantumare vari record offensivi già al suo anno da esordiente. Dopo due terzi di stagione viaggia a 15.2 punti e 7.7 rimbalzi a partita in poco più di 30’ di impiego. È stato il giocatore più veloce di sempre a raggiungere 100 triple in carriera, con solo 41 partite all’attivo. È attualmente il rookie con la più alta media di tiri da tre segnati a partita di sempre (2.3, pari con Damian Lillard). Ed è stato il primo giocatore nella storia della NBA a segnare 10 triple nelle prime tre partite in carriera. Ma al di là di primati e statistiche che servono giusto a rimpolpare gli opuscoli per la stampa, Markkanen ha rapito tutti per la sicurezza con cui si è mosso in campo nella prima stagione da professionista. Sciolto, freddo, costante, sempre pronto a stupire con qualche nuovo movimento offensivo. Come se giocasse nella NBA da un decennio. Prestazioni che hanno stupito tutti, tranne coloro che lo conoscono dai primi anni di carriera. E proprio a loro ci affidiamo per rivisitare il suo percorso dal ghiaccio di Helsinki a quello di Chicago.
“Non cazzeggiava. Mai”
Hanno Möttölä è un personaggio chiave nell’ascesa di Lauri Markkanen, oltre che un nome che trasuda valanghe di ricordi per i cultori del basket collegiale. Ala grande di pregevoli fondamentali e ottimo tiro dalla media, era parte di un terzetto di culto assoluto agli Utah Utes, assieme ad Andre Miller —non servono presentazioni — e Michael Doleac, altro lungo con chioma bionda e mano dolce. Allenati dal compianto Rick Majerus in quello che resta uno degli esperimento di “play the right way” meglio riusciti di sempre del college basket, gli Utes persero in volata la finale NCAA contro la Kentucky di Nazr Mohammed e Rick Pitino. Era il 1998. Quella partita sarebbe stata anche l’apice della fama per Möttölä: dopo essere diventato il primo finlandese a essere scelto nella NBA, avrebbe continuato la sua carriera in Europa — anche a Bologna, sponda Fortitudo — fino a intraprendere la strada di allenatore nella terra natia. E proprio qui, alla Helsinki Basketball Academy, si sarebbe improvvisamente trovato per le mani un giocatore speciale. Lauri, appunto.
Era l’inizio di un grande viaggio: "Non si comportava come un ragazzo del liceo: era sempre concentrato, lavorava incessantemente, era ossessionato dal desiderio di migliorare. Non ricordo una volta in cui prima dell’allenamento giocasse a fare tiri impossibili. Non cazzeggiava. Mai" ricorda Möttölä. "È quella, prima ancora del talento, la ragione per cui tra pochi anni lo vedremo all’All-Star Game". Ma anche per chi lo conosce dai primi passi, il successo di oggi supera ogni aspettativa. "Mi aspettavo che potesse arrivare a questi livelli? Onestamente no. Era stato allenato benissimo a Jyväskylä, la sua città. Aveva un talento incredibile. Ma c’erano così tanti aspetti in cui doveva migliorare. È la durezza mentale che gli ha consentito di arrivare così in alto: dalla nostra scuola di basket non è mai passato nessuno con la sua testa. Giocatori così definiscono una generazione".
Quasi predestinato
Facile cedere al folklore: un finlandese che gioca a basket ha sempre un gusto esotico, al netto delle imprese di quegli Utes e di quelle di Teemu Rannikko e Petteri Koponen nella nostra serie A. E così, anche nella NBA globalizzata degli ultimi anni, Markkanen è stato inizialmente visto come un buffo oggetto misterioso, nonostante la sua carriera abbia seguito le tappe più canoniche verso il successo da professionista. Figlio di due cestisti professionisti — il padre Pekka ha giocato a Kansas con Roy Williams prima di girovagare per mezza Europa, la madre Riikka è stata nazionale finlandese, capaci anche di dargli un fratello calciatore professionista — Lauri è stato un talento di caratura internazionale sin dai giorni alla Helsinki Basketball Academy, dove proprio Möttölä, fresco di ritiro dal basket giocato, muoveva i primi passi da allenatore. Da lì è stata una rapida ascesa: proiettato sulle mappe degli scout dalle prestazioni con la Nazionale giovanile, il suo nome ha iniziato a circolare vorticosamente lungo le piste del reclutamento NCAA. Con i fitti contatti di Möttölä a facilitare le operazioni, sono arrivate in fretta chiamate importanti: Arizona, North Carolina e ovviamente Utah, che di Hanno si fida ciecamente.
Lui sceglie Arizona, non senza tentennamenti: la visita a Salt Lake City lascia ottime impressioni, ma quanto si pensa al basket giocato Tucson offre spazio, tradizione, una squadra di talento e un vuoto pneumatico da riempire nelle posizioni dei lunghi. Il deserto dell’Arizona è un un brutale contrappasso climatico rispetto al gelo di Jyväskylä, ma si rivela anche l’ambiente dove trova il giusto equilibrio tra spazio e competitività. Non se ne sarebbe pentito. "Andare al college è stata una decisione solo e unicamente sua e della sua famiglia. Io l’ho aiutato nel reclutamento, ma ha fatto tutto lui. Le cose svoltarono quando venne invitato al camp di Basketball Without Borders: giocò benissimo e il mio telefono iniziò a suonare incessantemente. Da lì in poi, fu solo questione di capire quali università fossero le più adatte al suo gioco e ai suoi obiettivi" racconta Möttölä.
Un corso accelerato
"Fosse americano, sarebbe stato tra i migliori 25 prospetti", dichiarano anonimamente vari allenatori NCAA all’indomani dell’inizio della stagione collegiale. E lui, subito con responsabilità e spazio, non delude le attese. "Quando arrivò a Tucson, la questione non era più se sarebbe mai riuscito ad arrivare in NBA; era solo quanto tempo ci avrebbe messo" dice Möttölä. Alla prima uscita stagionale, in una partita trasmessa in diretta nazionale, gioca come se fosse sempre stato parte di quel sistema. È l’esordio di Miles Bridges, attesissimo freshman di Michigan State; ma Arizona, dopo un pessimo inizio, rimonta e vince allo scadere, presentandosi come una delle squadre più intriganti del panorama collegiale. Lauri fa il suo: 13 punti, 6 rimbalzi, una schiacciata che finisce negli highlights di ESPN.
Da lì in poi inizia un crescendo costante. Con Alonzo Trier sospeso per 19 partite a causa di un controverso risultato positivo a un test anti doping, le responsabilità offensive sono superiori al previsto. Lui le onora facendo canestro, quello che gli è sempre riuscito benissimo. Si attesta sui 15 punti e 7.5 rimbalzi a partita, con il 42% da tre e 134 di offensive rating, il quinto dato della nazione. Più alto di quello di Markelle Fultz, Lonzo Ball e Jayson Tatum, le prime tre scelte del Draft del 2017. Colpisce il tiro da tre, micidiale e con meccanica fulminea. Ma sono i fondamentali offensivi generali, uniti ad altezza e agilità, a rapire gli occhi degli scout NBA. "Arizona gli diede esattamente quello che gli serviva: un palcoscenico dove giocare 30 e passa minuti in una delle conference più competitive della NCAA. Fu un corso accelerato per imparare a muoversi nel sistema americano, in cui l’uno contro uno conta più del collettivo" spiega Möttölä.
"Sin da quando vedevo i suoi primi video, giocava in uscita dai blocchi come una guardia di due metri. E invece era oltre i 2.10" dice invece Joe Pasternack, allora assistente di Sean Miller ad Arizona e ora allenatore a Santa Barbara. L’uomo che, dagli Stati Uniti, più di tutti l’ha seguito, tampinato, blandito durante il processo del reclutamento. E ha potuto apprezzare la sua incredibile maturità nell’approccio alle partite. "Si prepara a scendere in campo come farebbe un senior prima di una finale NCAA. O come deve fare un giocatore NBA" ancora Pasternack. "Ho sempre pensato che fosse un giocatore unico nella sua generazione". Con lui Arizona guadagna la testa di serie numero 2 al torneo e la Final Four sembra alla portata, ma arriva l’eliminazione alle Sweet 16 contro Xavier, non sufficiente comunque a macchiare una stagione molto positiva. Poche ore dopo l’eliminazione, la decisione di lasciare il college. Mai veramente in discussione, visto il valore di mercato di un lungo che non solo sa allargare il campo e fare canestro con continuità, ma ha anche margini di miglioramento offensivi enormi. Si congeda con un breve comunicato: tappa successiva, la Green Room del Draft NBA.
Figlio di questa epoca
Quella tra i professionisti non sarebbe però stata un’accoglienza calorosa. O meglio, Lauri non poteva sapere che la sua chiamata al numero 7 sarebbe stata parte del pacchetto spedito dai Timberwolves ai Bulls in cambio di Jimmy Butler. Una mossa che nella tifoseria dei Bulls ha causato malumori paragonabili solo a quelli associati agli infortuni di Derrick Rose, al netto della necessità di ricominciare da capo. E così il suo arrivo è stato accolto in un misto di indifferenza e rassegnazione: agli occhi del tifoso medio — che non saprà molto di statistiche avanzate ma è pur sempre quello che riempie lo United Center, consuma il prodotto e determina in ultima analisi l’umore attorno alla squadra —Markkanen era solo una pallida contropartita in un affare mal digerito, che avrebbe definitivamente condannato i Bulls a un lungo periodo di magra.
Ma se queste circostanze hanno mutilato gli entusiasmi, sono anche servite a togliere tantissima pressione. In una squadra senza ambizioni e con tifosi disperatamente alla ricerca di qualche ragione di entusiasmo dopo anni spesi a oscillare tra delusioni e mediocrità, Markkanen si è trovato davanti una strada senza i tipici ostacoli che un rookie deve affrontare. Minuti, responsabilità offensive, spazio per sbagliare. E un allenatore di ampie vedute, che nei due anni precedenti un giocatore con queste caratteristiche lo aveva desiderato e mai ottenuto. "Se c’è una cosa che dicevo sempre a Lauri sull’NBA è che devi tirare, e devi segnarli spesso. Essere troppo timido fu il mio grande errore. Ma a Lauri non serve nemmeno dirlo: adora tirare. Ha una mentalità diversa, è figlio di questa epoca" racconta Möttölä.
I primi raggi a squarciare le nubi sono arrivati a settembre durante Eurobasket. Davanti al pubblico di casa, Markkanen è sostanzialmente riuscito a ripetere nel mondo dei grandi quello che gli riusciva benissimo nelle nazionali giovanili: dominare qualsiasi aspetto del gioco offensivo. Chiusa la prima fase a quasi 20 punti di media, ha poi trascinato la Finlandia agli ottavi di finale, persi proprio contro l’Italia giocando quella partita con un problema all’anca che lo ha fortemente limitato. Lanciando però, ancora una volta, il messaggio che chiunque lo vedesse giocare recepiva immediatamente: l’etichetta di specialista del tiro gli stava strettissima. "Uno dei meriti di Hoiberg è stato quello di fare emergere le sue doti offensive a tutto tondo. Molti vedono Lauri come l’ennesimo lungo europeo con un buon tiro, ma non si accorgono che sa anche mettere palla per terra, andare forte a rimbalzo, colpire dalla media distanza. Il gioco in post basso è forse l’aspetto in cui ha ancora più da migliorare, ma con quelle mani e quell’altezza, ha tutto per dominare anche lì" spiega Möttölä.
E così, oltre che per lo United Center, Lauri è diventato un punto di riferimento per un intero paese. "In passato i finlandesi conoscevano solo i giocatori della NHL, ora tutti conoscono Lauri. I ragazzini lo adorano: tantissime persone vanno a letto tardi o si alzano presto per guardare le partite dei Bulls. Il nostro movimento ha fatto dei passi avanti giganteschi negli ultimi dieci anni e ora finalmente abbiamo la stella che può farci fare il salto di qualità decisivo. Vuol dire portare sponsor e tifosi per la Nazionale, ma anche per nostre squadre di club. Ne abbiamo disperatamente bisogno" chiude Möttölä. Dopo l’addio di Butler, valeva anche per i tifosi di Chicago. Per ora, quel vuoto è stato colmato.