NBA, i cinque migliori allenatori di questa stagione
NBAPassaggi consegnati, pick and roll in movimento e soluzioni universali: ecco i cinque migliori interpreti del nuovo corso delle panchine NBA, uscendo per un attimo dai soliti nomi e cercando tra quelli che non hanno ancora vinto il premio di Allenatore dell'Anno
La NBA è una “players’ league”, in cui i giocatori sono il volto delle franchigie, vendono le magliette e con le loro imprese in campo scrivono le pagine più indelebili della storia. Contrariamente a quanto succede in NCAA o nel basket FIBA in cui il ruolo del coach è centrale, in NBA gli allenatori passano spesso in secondo piano: non sono loro a finire in copertina in caso di vittoria ma probabilmente sono i primi a pagare per tutti nelle sconfitte. La figura dell’allenatore NBA è determinante pur stando nell’ombra e negli anni ha subito una considerevole metamorfosi: vi ricordate il cosiddetto “players’ coach” amico dei giocatori che doveva solo gestire senza alzare troppo la voce, o i sergenti di ferro che imponevano il proprio diktat ai giocatori? Quegli allenatori sono estinti. Il coach NBA 2.0 è preparato a 360°, delega agli assistenti ma non manca di carisma nelle sue decisioni, apre un dialogo con i giocatori, è capace di assecondarne il talento e al tempo spesso “vendergli” la sua idea di gioco.
Nelle ultime due stagioni sono stati licenziati solamente due allenatori, un record assoluto, un fenomeno dovuto alla qualità dei coaching staff sempre più elevata e a una progettualità un po’ più a lungo termine, anche se nel corso di questa estate sono previsti diversi cambiamenti. La nuova ondata di giovani allenatori promossi a Head Coach ha portato a un ricambio generazionale e filosofico sulle panchine di mezza NBA: il gioco che propongono è moderno, atipico, duttile e in continua evoluzione. Anche i veterani di lungo corso per stare al passo con i tempi hanno abbracciato il nuovo corso dimostrando una grande apertura mentale.
Per dare i giusti riconoscimenti al lavoro imprescindibile di chi siede in panchina, abbiamo deciso di stilare la classifica dei cinque migliori allenatori NBA di questa stagione, partendo da un paio di precisazioni: non si tratta di una previsione per il premio di Coach Of The Year, che viene assegnato in base a criteri diversi da quelli che vogliamo prendere in esame noi, e non si tratta nemmeno di un ranking di valore assoluto, altrimenti parleremmo sempre dei soliti noti.
Abbiamo quindi deciso di lasciare fuori Steve Kerr e Mike D’Antoni, che a Golden State e Houston hanno implementato un sistema di gioco eccezionale, reso peculiare dalle caratteristiche per certi versi uniche dei propri giocatori. Si tratta di due allenatori che hanno cambiato il modo in cui si gioca a basket e che spingono la pallacanestro verso nuovi orizzonti, ma sono anche in un contesto ad hoc per dare sfogo alla propria visione di gioco.
Ci siamo sentiti anche di escludere un califfo come Rick Carlisle - i suoi Dallas Mavericks sono in fase di ricostruzione dichiarata - e Gregg Popovich, il miglior allenatore dell’ultimo ventennio, forse il migliore di sempre, ma che sta vivendo l’anno più difficile da quando è diventato deus ex machina dei San Antonio Spurs 22 anni fa.
Per farvi capire quanta qualità che c’è tra i coach NBA i vari Stan Van Gundy, Tom Thibodeau, Mike Budenholzer, Billy Donovan e Alvin Gentry, riconosciuti come tra i migliori interpreti della categoria, sono considerati oggi allenatori nella “media”.
Tutto questo preambolo per dire che vogliamo premiare quei coach che si sono distinti e che attraverso il loro contributo, le loro indicazioni tattiche, il loro playbook e le loro idee offensive hanno alzato il livello delle rispettive squadre. Ultimo disclaimer: parleremo solo di attacco tralasciando - per ora - tutto ciò che riguarda la difesa.
5. Brett Brown, Philadelphia 76ers
La crescita dei 76ers dopo anni di tanking sfrenato oggi sembra inarrestabile. È facile e scontato indicare Ben Simmons e Joel Embiid come i motivi principali di questo “processo” iniziato da Sam Hinkie e portato alla fase successiva da Bryan Colangelo, ma se i Sixers sono la squadra che sono lo devono anche, per non dire soprattutto, a Brett Brown.
Brown è stato uno dei volti del “Trust The Process”, forse quello più amato e apprezzato: un insegnante di basket di altissimo livello, con referenze straordinarie derivanti al suo ex incarico di assistente di Popovich. Dal 2013 ha dovuto allenare squadre “sperimentali” composte in gran parte da D-Leaguers e pochissime certezze a cui però è riuscito a dare una dignità NBA, disciplina tattica e uno stile di gioco, a livello di X&O, anche brillante.
Quando hai per la mani una squadra così talentuosa ma inesperta devi essere un abile gestore: Brown questi ragazzi li ha cresciuti come un padre di famiglia, per molti di loro è stato il primo coach che hanno mai avuto in NBA, si è preso cura del loro sviluppo tecnico ed ha instaurato un rapporto forte con loro.
Simmons e Embiid sono due talenti di grande personalità e Brown ne asseconda gli istinti lasciandoli liberi di agire nel “flow”.
Quando però c’è bisogno di disciplina ed esecuzione, l’ex coach della nazionale australiana ha sviluppato un sistema di Motion Offense polivalente, contenitore di decine di collaborazioni e situazioni tattiche, che possiamo categorizzare come “Elbow Series”, dato che lo snodo centrale dei giochi passa dai gomiti alti dell’area colorata.
Questo set offensivo è confezionato su misura per mandare Embiid spalle a canestro in ricezione dinamica, dopo aver ricevuto un blocco diagonale da un esterno permettendo al centro camerunense di prendere posizione profonda e andare facilmente a canestro.
Stesso schieramento, cambia il passaggio d’entrata: in questo caso la tavola è apparecchiata per mandare Simmons spalle a canestro contro un giocatore più piccolo o leggero.
All’interno della Motion Offense ci sono giochi che prevedono letture speciali per provocare una situazione di gioco specifica.
Questo ad esempio è un gioco messo a punto per sfruttare le abilità da tagliante di Dario Saric mentre la difesa è passiva lontano dalla palla.
Non mancano ovviamente le soluzioni per i tiratori di movimento come J.J. Redick o Marco Belinelli, rigorosamente stando nei soliti meccanismi tipici delle Elbow Series.
Brown per Redick ha personalizzato un paio di set offensivi che prevedono blocchi sul perimetro conclusi con un passaggio consegnato centrale come nelle prime due clip, oppure una serie di blocchi sulla linea di fondo (dette Floppy Action) per farlo riceve in posizione più decentrata.
A distanza di cinque anni dall’ultima apparizione, i Sixers si apprestano a tornare ai playoff con il “rischio” di avere il fattore campo a favore per la prima volta dal 2003 quando in panchina sedeva un altro Brown, Larry, e in campo c’era Allen Iverson. Non male per una squadra che due stagioni fa chiuse la regular season con 10 vittorie e 72 sconfitte: la pazienza di Brett Brown è stata ripagata e lui non ha deluso le aspettative.
4. Dwane Casey, Toronto Raptors
Dwane Casey è sempre stato un allenatore integerrimo poco incline ai fronzoli, e nel corso della sua carriera ai Raptors la sua personalità ha rappresentato sia il suo punto di forza che il suo più grande punto debole. La rigidità di certe scelte e l’immutabilità di alcune convinzioni hanno pesantemente condizionato il percorso della franchigia canadese, che a seguito di regular season di alto livello ha sempre raccolto meno di quanto seminato nei playoff.
Per cambiare l’inerzia della sua carriera (leggi: per salvare la sua panchina) e far compiere il salto di qualità ai Raptors con il suo staff ha deciso di agire in due direzioni: ha dato fluidità offensiva a un attacco notoriamente tra i più efficienti della NBA in regular season ma ridondante e facile da manomettere in ambito playoff; e di pari passo ha lavorato sullo sviluppo dei giocatori, in particolare del supporting cast, puntando sui margini di miglioramento dei giovani e sul talento inespresso di alcuni veterani.
Un esempio del nuovo attacco dei Raptors: esecuzione veloce, i giocatori si muovono a mille all’ora, la palla non si ferma mai, il primo pick and roll non porta a niente ma vengono subito ricreate le condizioni per un secondo pick and roll che stavolta manda a canestro Jonas Valanciunas con l’area sgombra.
Il nuovo approccio ha permesso a una squadra “DeRozan-Lowry dipendente” di ridistribuire le responsabilità offensive, lasciando che i giocatori di complemento potesser evolvere ed innalzare il proprio gioco sentendosi più coinvolti. Questa investitura è stato recepita dai giovani come l’occasione di mettersi in mostra, di fatto dando l’impulso decisivo all’affermazione della second unit, l’arma in più dei canadesi in questa stagione.
Con la second unit in campo il movimento è incessante. Nella prima clip la difesa dei Rockets perde un giro e si scopre sul perimetro per una tripla aperta; nella seconda clip il “drag” di Jakob Poeltl apre una voragine a centro area che porta al canestro del centro austriaco dopo una bella collaborazione a tre.
Il tipo di attacco che usa Casey è una libera interpretazione dello “Spread Offense” di Mike D’Antoni, con personale, tempi ed obiettivi leggermente diversi da ciò che stanno facendo i Rockets, ovvero usare situazioni di pick and roll non per creare isolamenti continui - lo avrebbero fatto i vecchi e prevedibili Raptors - ma per azionare il gioco di squadra.
Entrare subito in una situazione di pick and roll è essenziale per coinvolgere successivamente quanti più giocatori possibile. Non è un caso che solitamente il terzo giocatore coinvolto nel pick and roll sia spesso il giocatore più importante, per attaccare il recupero difensivo o innescare la circolazione di palla che porta ad un tiro aperto.
Gli schemi a difesa schierata dei Raptors non sono nulla di trascendentale o di innovativo, ma permettono a Casey di dare quel minimo di fluidità offensiva per muovere la difesa.
La prima parte di questo gioco serve a concentrare la difesa su un lato per poi arrivare a giocare un pick and roll con angolo piatto in spazi larghi sul lato opposto. DeRozan è abilissimo a prendere vantaggio da questa situazione anche contro il cambio sistematico, tenendo il contatto sul difensore per poi prenderlo in controtempo anticipando la conclusione.
Questo set è strutturato per mettere in moto Lowry o DeRozan lontano dalla palla e mandarli a giocare un passaggio consegnato dalla corsa e attaccare le scelte difensive: se la difesa raddoppia, scarico; se passa dietro, c’è spazio per il tiro; se insegue l’attaccante, mette palla per terra.
Casey ha fatto un lavoro enorme nel mettere a posto tatticamente una squadra che semplicemente doveva fare meglio quello che già faceva, allargando il ventaglio di opzioni per diventare più imprevedibili. I Raptors nella semplicità del loro sistema offensivo hanno imparato a giocare assieme e lanciato Casey come candidato credibile al premio di Coach of The Year.
3. Brad Stevens, Boston Celtics
La parabola che ha elevato Stevens nel gotha degli allenatori NBA è tipica degli enfant prodige. L’ex allenatore di Butler ha bruciato tappe su tappe sin dal suo ingresso nella lega, portando i Celtics ai playoff già nel suo secondo anno e vincendo ogni stagione sempre più partite di quella precedente. Ha esordito nella NBA appena 37enne dopo aver trascinato la sua minuscola università a due finali NCAA consecutive e oggi, a 42 anni ancora da compiere, i suoi Celtics sono una delle squadre più brillanti per la qualità di gioco che esprimono.
Il sistema di gioco che ha implementato a Boston è flessibile e aperto, studiato per esaltare alcune caratteristiche tipiche dei giocatori moderni. Nella sua idea di basket “Pace and Space” le guardie e le ali sono intercambiabili, i lunghi sono atipici e perimetrali e chiunque può maneggiare il pallone per favorire la circolazione di palla, mettere palla a terra o prendersi un tiro da tre punti. Detta in modo banale, significa imporre ritmi alti in spazi larghi.
La 5 Out Motion che abbiamo spesso trattato in passato è l’emblema di questo approccio esplicitamente perimetrale.
Cinque giocatori disposti sul perimetro, il lungo che riceve si sposta su un lato per duettare con un esterno mentre gli altri attaccanti sono ben spaziati sul perimetro. È una Motion Offense che si modella continuamente sulla reazione della difesa o può integrare varianti sempre più creative, come l’elevator screen dell’ultima clip in favore di Kyrie Irving.
Ogni set di Motion Offense dei Celtics è studiato per aprire il campo con lunghi che operano fronte a canestro e giocatori che si muovono attorno attaccando il ferro.
In questo set offensivo i due lunghi sono sempre sopra la linea del tiro libero e se bloccano sulla palla lo fanno sempre per aprirsi e non per rollare a canestro. Se hanno spazio per il tiro non lo rifiutano, ma se la difesa li segue fuori dal pitturato gli esterni hanno l’area libera per tagliare, bloccarsi o penetrare.
I Celtics hanno lunghi estremamente pericolosi quando si aprono a canestro, Al Horford in particolare, e il modo migliore di metterli nelle condizioni di essere pericolosi per le difese avversarie è ricorrendo al pick and pop.
Usando questo schema i Celtics con un taglio da lato debole permettono di giocare un pick and pop senza che la difesa possa interferire, magari mandando in rotazione un terzo difensore.
L’importanza delle spaziature è fondamentale per l’economia di gioco dei Celtics: tenere costantemente distanziata la difesa permette ai giocatori di operare in spazi larghi.
Jayson Tatum in questo senso è disegnato dal sarto per il sistema di Stevens: sa leggere e riconoscere gli spazi da attaccare come un veterano. Il vantaggio di avere tanto spazio in cui operare è tutto merito di Stevens.
All’interno di questo ecosistema di “Pace and Space” il talento dei singoli viene amplificato.
Il passaggio consegnato tra Irving e Horford è subito diventato un incubo per le difese avversarie. Se raddoppiano Irving, c’è uno scarico a Horford per il tiro; se la difesa si concentra sul lungo di origine dominicana, Irving ha tutto lo spazio del mondo per le sue imprendibili incursioni a canestro.
Il playbook di Stevens ovviamente non è composto solo da Motion Offense, ma anche da set offensivi creativi per variare l’attacco e stimolare le difese ad adeguarsi anzichè prendere l’iniziativa.
Nella clip sono mostrati quattro modi diversi per attaccare la difesa prima ancora di arrivare a fine schema per dare la palla in post basso.
Stesso identico discorso per questo set offensivo: il medesimo pick and roll giocato per tre volte porta a tre canestri di tre giocatori diversi. Lo spacing e il timing con cui vengono sviluppate tutte le varie collaborazioni sono ai limiti della perfezione.
Non c’è dubbio che Stevens nonostante la giovane età sia uno dei coach più competenti ed influenti della nuova generazione: la sua idea di basket ha contribuito ad abbattere molti dei preconcetti verso il basket moderno considerato da molti tutto uno contro uno e poco altro.
2. Erik Spoelstra, Miami Heat
Se dovessimo definire Erik Spoelstra con un aggettivo sarebbe “versatile”. Nei suoi dieci anni da capo allenatore dei Miami Heat ha allenato oltre 150 giocatori diversi, squadre povere di talento che facevano fatica a segnare 80 punti in una partita e altre tra le più talentuose nella storia del gioco che 80 punti li facevano all’intervallo.
In ogni caso ha sempre trovato il modo di plasmare l’attacco delle sue squadre sulle caratteristiche dei giocatori: dategli una dozzina di giocatori, un paio di mesi di esperimenti e troverà il modo di farli esprimere al massimo delle loro possibilità, forse anche oltre quelli che sono i loro limiti.
Pensate a James Johnson: in molti lo hanno scartato perchè indecifrabile da un punto di vista tattico, e dopo pochi mesi con Spoelstra è diventato un coltellino svizzero in grado di fare qualunque cosa su un campo da basket.
Può giocare il pick and roll da portatore di palla, ma anche diventare repentinamente bloccante dopo aver passato la palla. Questa doppia dimensione, che in NBA possono permettersi in pochi, lo rende costantemente utile per i compagni ed imprevedibile per le difese avversarie.
Da come ne parliamo Spoesltra sembra un Re Mida capace di tramutare in oro tutto ciò che tocca, ma se può farlo è perché nel corso degli anni è riuscito a creare una struttura forte e ben radicata a Miami, che offre tanto ai giocatori ma esige una disciplina ferrea e fiducia incondizionata nel suo operato. La Heat Culture è anche questo.
I principi a cui si ispira per far giocare gli Heat fanno riferimento alla Princeton Offense, un tipo di attacco che usa i tagli lontano dalla palla, specialmente quelli backdoor, per aprire gli spazi, e poi entrare in regime di penetra e scarica. Lo strumento più usato da Spoelstra per mettere in moto questo tipo di attacco è il passaggio consegnato in ogni sua forma e salsa.
Non importa se spingendo il contropiede o se a difesa schierata, se come opzione primaria o a giochi rotti, Spoelstra lascia liberi Johnson e Kelly Olynyk, due artisti in questo fondamentale, di giocare tutti i consegnati che vogliono per mettere in ritmo i compagni. Nel momento in cui le difese iniziano ad “anticipare” questa collaborazione, si aprono delle voragini che entrambi possono volgere a proprio vantaggio per andare a canestro.
Ogni set dell’infinito playbook di Spoelstra è basato sul concetto di “Read & React”: ogni movimento porta a innumerevoli interpretazioni dell’attacco.
Molto spesso il gioco degli Heat inizia con questo banale blocco a scendere su un lato: in base a come la difesa reagisce al primo input dell’attacco si dipana il gioco in svariate direzioni.
Ancora blocco a scendere, stavolta centrale: questo semplice movimento può essere sfruttato in tutti i modi esposti nella clip, semplicemente giocando contro la difesa.
Anche nei giochi più strutturati Spoelstra lascia sempre spazio alla creatività ed alle letture dei propri giocatori.
Il gioco “Corna” è uno dei pochi set codificati degli Heat: partenza con due giocatori ai gomiti, un giocatore interno ed uno perimetrale. È uno schema universale, in cui ogni giocatore è intercambiabile in una delle due posizioni principali e sfruttare il proprio talento per creare situazioni sempre diverse.
Provate voi a fare uno scouting report su una squadra che gioca la stessa situazione in dozzine di modi differenti: gli Heat non sono la squadra più talentuosa della lega e nemmeno ci vanno vicino, ma il modo in cui li fa giocare Spoelstra li rende una brutta gatta da pelare, imprevedibile e da non sottovalutare. Miami può non avere stelle in campo, ma in panchina ha un fenomeno.
1. Quin Snyder, Utah Jazz
In estate gli Utah Jazz hanno perso i suoi due migliori realizzatori, Gordon Hayward e George Hill, e in molti li davano già per spacciati. Nel corso della regular season hanno dovuto fare a meno per molto tempo di Rudy Gobert, eppure ad oggi sono in piena corsa playoff.
Certo, la pesca di Donovan Mitchell e la sua ascesa sono state significative, ma quello che ha fatto Snyder è stato incredibile: ha preso un roster monco, limitato in attacco, semi depresso per le perdite subite e l’ha fatta diventare una squadra che nessuno vuole incontrare al primo turno dei playoff per la resilienza con cui giocano e la disciplina con cui eseguono su entrambi i lati del campo.
Il sistema di gioco dei Jazz è definito da Snyder come “Advantage Basketball”: ogni taglio, ogni blocco, ogni pick and roll ed ogni movimento è ponderato per procurare un piccolo vantaggio a giocatori che altrimenti farebbero fatica a crearselo da soli. L’obiettivo dell’attacco è aumentare sempre quel vantaggio con letture rapide e movimenti precisi fino ad arrivare al miglior tiro possibile. In questo contesto anche il giocatore più lento o può diventare un fulmine imprendibile contro qualunque difesa. Questo concetto di stampo prettamente europeo Snyder lo ha affinato nel suo anno da assistente di Ettore Messina al CSKA e lo ha traslato magnificamente in NBA.
Movimento di palla e di uomini, pick and roll dalla corsa senza fermare il pallone, piccoli vantaggi che creano una frattura nella difesa: nel primo caso è Ricky Rubio a procurare lo “strappo” decisivo tagliando davanti a Paul, nel secondo è Joe Ingles in uscita dal blocco. Da quel momento in poi i Jazz ingrandiscono quel vantaggio entrando in un flusso continuo di penetra e scarica.
Il modo migliore per spiegare quello che ha costruito Snyder ai Jazz è citare la teoria della percezione della Gestalt: “Il tutto è maggiore della somma della parti che lo compongono”. Prendiamo per esempio Ricky Rubio e Joe Ingles: presi singolarmente sono giocatori con evidenti limiti tecnici o fisici, ma nel sistema Jazz il loro valore è inestimabile.
Continuiamo a fingere che sia semplicemente un giocatore sgraziato nelle movenze, ma Joe Ingles è un’artista del pick and roll. Snyder lo sa bene e gli fa giocare decine di giochi a due a partita spremendo ogni stilla del talento australiano.
I precetti di questa filosofia offensiva si ritrovano in tutte le collaborazioni dei Jazz, dalle più semplice alle più articolate.
Il pick and roll apre un vantaggio, i giocatori dei Jazz lo riconoscono e lo attaccano senza esitare, forzando la difesa a rincorrere l’attacco. L’esecuzione batte il talento.
Snyder in estate ha lavorato molto sul suo playbook per entrare più velocemente nelle situazioni che possono procurare vantaggi senza perdersi in una serie interminabili di passaggi inutili che riducevano i tempi in cui l’attacco poteva crearsi un buon tiro.
Doppio pick and roll dalla transizione che porta ad un successivo “catch and roll”, ovvero un pick and roll dinamico particolarmente indigesto a qualsiasi difesa che deve dimezzare i tempi di reazione rispetto a un classico gioco a due statico.
Oltre alle Motion Offense che permettono ai suoi giocatori di entrare nei giochi in modo automatico, il cilindro di Snyder è piena di conigli da estrarre per rubare canestri facili.
Pick and pop ed un semplice taglio da lato debole, talmente semplice che la difesa nemmeno se lo aspetta.
Questo gioco è più complesso, ma non meno efficace: è il solito gioco “Corna” degli Heat - Spoelstra lo ha copiato dal playbook di Snyder e adattato ai primi fini - che usa il pick and roll centrale come distrazione per togliere pressione difensiva all’uscita dal blocco sul lato forte.
Grazie alla mentalità istillata da Snyder, al suo meticoloso lavoro, alla sua ossessione per i dettagli, i Jazz riescono a fare cose che una squadra così limitata nel talento e apparentemente disfunzionale per i canoni moderni del gioco non riuscirebbe a fare. I Jazz sono conosciuti per la loro difesa arcigna, ma possono essere apprezzati anche per l’ingegnosità del loro attacco. Merito di Snyder, secondo noi il miglior allenatore NBA di questa stagione.