Da giocatore di complemento a pezzo fondamentale nelle due metà campo nel giro di un anno: la crescita di Jaylen Brown va di pari passo con quella dei Boston Celtics, arrivati a due sole vittorie dalle Finali NBA
Ci sono vite che assomigliano ad esercitazioni dialettiche, raffinati esperimenti creati a tavolino per demolire luoghi comuni radicati nel profondo dell’opinione pubblica. Qualora agli appassionati venisse chiesto di stilare una lista degli interessi che le stelle NBA, in particolare quelle molto giovani, coltivano fuori dal campo, è assai probabile che la storia contemporanea, la filosofia e gli scacchi non salirebbero sul podio delle risposte più gettonate. Più probabilmente, neanche nella top-50.
Eppure, tra le passioni di Jaylen Brown, libri e scacchiera occupano un posto di primaria importanza. Non solo: il ragazzo da Marietta, Georgia trascorre buona parte del suo tempo libero a studiare lo spagnolo o a suonare il pianoforte, quando non è impegnato ad affrontare con maturità disarmante per la sua età temi sociali e politici, alternando alle tante attività sessioni di pratica meditativa. Nella restante parte del tempo a disposizione, Brown veste la prestigiosa maglia dei Boston Celtics. E se sulla riuscita nelle varie discipline collaterali esprimere un giudizio risulta difficile, in campo l’ex University of California si è guadagnato il plauso unanime di critica e tifosi.
Sliding doors
Dopo una stagione da rookie solida ma priva di particolari picchi, le premesse per il suo secondo anno da professionista erano piuttosto fumose. Con lo sbarco in Massachusetts di Gordon Hayward e Marcus Morris, l’impressione era che Brown avrebbe dovuto sgomitare per guadagnarsi minuti, magari puntando al ruolo di specialista difensivo a compensazione dell’acerbo talento di Tatum nell’altra metà campo. Il fulmineo e grave infortunio occorso all’ex-Utah e la conferma della labile continuità di rendimento del più giovane dei gemelli Morris gli ha invece aperto in pianta stabile le porte del quintetto, mostrando sin dalla primissima gara che i Celtics avrebbero avuto bisogno delle sue doti realizzative per navigare le acque difficili post-infortunio di Hayward.
La linea di credito aperta in suo favore da coach Brad Stevens, un po’ per convinzione e un po’ frutto delle circostanze, è stata da subito ben ripagata: nelle settanta partite giocate, tutte cominciate in quintetto, ha raddoppiato la propria produzione rispetto all’annata d’esordio. I 14.5 punti, 5 rimbalzi e 1.6 assist racimolati in 31 minuti di media l’hanno reso un pezzo inamovibile dello scacchiere biancoverde, soprattutto perché ha perfezionato gli aspetti del gioco fondamentali nell’esegesi moderna del ruolo definito “3&D”. Il 39.5% da dietro l’arco è un dato di assoluta eccellenza, anzitutto se confrontato con il 34.1% del 2016-17 e l’aumento di volume da 1.7 a 4.4 tentativi di media. Ancor più significativo è il dato singolo relativo alla percentuale da tre nei tiri scoccati dall’angolo sinistro dell’attacco, zona da cui ha operato sugli scarichi di Irving prima e Rozier poi con un’efficienza persino migliore (48.4%) rispetto a quella, già ottima, dell’anno precedente (46.4%).
Quanto all’aspetto difensivo, poi, il rating dell’ex-Golden Bear — 100.3 rispetto al 105.1 di un anno addietro, al netto dell’assenza di Isaiah Thomas — testimonia della sua imprescindibilità all’interno dell’articolato congegno oliato dal coaching staff (meglio di lui hanno fatto solo Smart e Baynes, ma con utilizzi complessivi molto più ridotti). Durante tutta la stagione regolare Brown ha interpretato alla perfezione ogni ruolo affidatogli, incarnando come e più dei compagni quello spirito combattivo che ha permesso ai Celtics di andare oltre i limiti teoricamente imposti dai tanti infortuni. E quando è arrivato il momento di alzare l’asticella allo scoccare dei playoff, Jaylen ha risposto ancora una volta presente, cambiando le intere prospettive della franchigia con ripercussioni che al momento è anche difficile comprendere. Perché ora chi mai si priverebbe di un two-way player del genere?
Flusso vitale
Se Horford e Rozier sono in tutto e per tutto le due facce di questi Celtics che non sembrano aver finito di sorprendere, e se Tatum rappresenta una rivelazione clamorosa, a regolare il flusso vitale della squadra anche nella post-season è stato proprio Jaylen Brown. Al netto dell’infortunio che l’ha costretto a saltare la prima gara della serie con Philadelphia, il numero 7 dei Celtics ha addirittura migliorato il proprio apporto offensivo (17.8 i punti di media, massimo in carriera con il trentello rifilato ai Bucks in gara-2 del primo turno, record poi ritoccato con i 34 segnati cinque giorni dopo in gara-4), senza per questo far mancare la presenza nella metà campo difensiva.
Durante le sette gare con Milwaukee Stevens l’ha utilizzato come un coltellino svizzero: nell’impianto tattico di Boston, che vive della capacità di tutti i giocatori in campo di adattarsi ai cambi difensivi con tempi di reazione infinitesimali, Brown ha tolto l’aria a Middleton, Brogdon, Bledsoe e a quanto resta di Jabari Parker. Sui possessi decisivi delle singole sfide, poi, all’ex terza scelta del Draft 2016 è toccato prendersi cura nientemeno che di Antetokounmpo, spingendolo nelle zone di campo meno adatte alle caratteristiche del greco. Più o meno lo stesso canovaccio è stato utilizzato nello scontro con i lanciatissimi Sixers, quando l’ala biancoverde ha prima messo in risalto tutti i limiti di Covington, di fatto togliendolo dalla serie, per poi dedicarsi ai tiratori deputati ad aprire il campo come Belinelli e Redick, usciti malconci dal confronto con il suo fisico ultra-reattivo. Il “trattamento Jaylen” è infine toccato a Simmons, preso in tandem con Horford e costretto sempre a forzare le proprie scelte nei momenti chiave della serie.
Jaylen al ferro, Jaylen che si butta sui palloni vaganti, Jaylen che segna in faccia a Giannis: gli highlights di gara-2 sono un riassunto della serie coi Bucks.
Covington e Saric battuti sulla palla vagante e schiacciata di prepotenza pur con una gamba a mezzo servizio: tutto Jaylen Brown in un’azione.
Al banco di prova dei playoff, insomma, Brown ha fin qui dimostrato di appartenere a quella ristretta categoria di giocatori che fanno sempre ciò che gli viene chiesto, ovvero ciò che serve per vincere. Niente di più e niente di meno — come se fosse poco.
Il “Test Invalsi”, altresì noto come “Test LeBron”
Il cammino verso la gloria, per Jaylen, passa ora dallo scoglio su cui si è infranta la sua prima esperienza ai playoff. Un anno fa, nelle pieghe della tutt’altro che memorabile serie di cinque partite che spedì i Cavs alla loro terza finale consecutiva, l’allora rookie andò a sbattere contro il totem James. Al di là degli esiti alterni del confronto diretto con LBJ — a dire la verità nemmeno troppo diversi da quelli ottenuti da chiunque abbia provato a opporsi al Re negli ultimi tre lustri —, fu l’atteggiamento, privo di qualsivoglia timore reverenziale a destare un’ottima impressione tra compagni, avversari, tifosi e addetti ai lavori. Alla vigilia della possibile rivincita l’attitudine non sembrava essere mutata, conferma ulteriore di una solidità mentale con pochi eguali.
Anche se i meccanismi difensivi di Stevens l’hanno portato a dedicarsi con maggiore continuità ai tiratori in attesa dagli scarichi piuttosto che direttamente a LeBron, nelle ennesime prove pressoché perfette dei Celtics c’è molto di suo (citofonare alla coppia Korver-J.R. Smith, 20 punti totali nelle due partite giocate al TD Garden, per eventuali testimonianze). Senza doversi occupare in pianta stabile di James nella metà campo difensiva, Brown ha guidato la squadra anche in attacco, dove con i 23 punti segnati in gara-1 e replicati in gara-2 è risultato il miglior dei suoi. La capacità di mettere punti a referto di Jaylen Brown ha immediatamente alzato il ceiling offensivo (piuttosto basso) dei Celtics, che hanno bisogno della sua capacità di attaccare difensori fisicamente inferiori per tenersi a galla in attacco, punendo ogni distrazione possibile. Se a questo si aggiunge una fiducia pressoché sconfinata nelle sue doti di tiro e un’intensità impareggiabile per tutti i 48 minuti, ecco emergere un giocatore completo sui due lati del campo in ogni situazione.
Stoppata da una parte, isolamento e canestro dall'altra.
Un futuro roseo in biancoverde
Contro ogni pronostico, il sogno di arrivare alle Finals — che sembrava un miraggio dopo l’addio alla stagione di Hayward e pura utopia dopo quello di Irving — potrebbe davvero realizzarsi con altre due vittorie. Ma a prescindere dall’eventuale approdo all’atto finale della post-season, l’orizzonte di Brown e dei Celtics rimarrà più che mai aperto verso l’infinito. Se la scorsa estate il suo nome compariva spesso tra i sacrificabili in scambi utili a portare a Beantown un’altra stella di prima grandezza, ora come ora appare poco plausibile che Ainge voglia privarsene, anche perché i margini di miglioramento — specialmente nel ball-handling e nelle conclusioni dal palleggio — sono ben presenti.
Nel giro di due stagioni Jaylen è diventato un vero e proprio pilastro della solida impalcatura con vista su un decennio di competitività ai massimi livelli. Da questo punto di vista, l’incastro perfetto delle caratteristiche tecniche con il resto del roster biancoverde diviene elemento quasi secondario rispetto alla connessione emotiva che il ventunenne ha saputo stabilire con l’ambiente e la città. Una volta assimilato il ritorno in campo di talenti da copertina come Irving e Hayward, Stevens avrà più che mai bisogno di giocatori pronti a sacrificare il proprio tornaconto personale in nome del bene comune.
Non è un caso che Brown, a differenza di molti colleghi come lui cultori dell’universo hip-hop, giri al largo dalla prospettiva di una carriera parallela da rapper. Folgorato a sedici anni dopo un concerto degli OutKast ad Atlanta, da anni produce beats tutti suoi, un tappeto sonoro in cerca di rime altrui. La luce della ribalta, Jaylen, la lascia volentieri a chi la brama. A lui, si fa per dire, basta e avanza essere il cuore pulsante di questi Celtics.