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NBA, Donovan Mitchell: “Voglio essere come Westbrook. E l'anno prossimo giocarmi le finali di conference"

NBA

Mauro Bevacqua

Intervista esclusiva al rookie degli Utah Jazz, uno dei tre finalisti al premio di matricola dell'anno. Il suo incredibile primo anno, i campioni che lo hanno ispirato da ragazzino e un viaggio di fine stagione a Belgrado per vedere giocare Luka Doncic

CLEVELAND, OHIO – Donovan Mitchell aspetta il prossimo 25 giugno – data degli NBA Awards – per capire se (a sorpresa) il premio di matricola dell’anno 2017-18 finirà nelle sue mani, uno dei tre finalisti insieme a Ben Simmons e Jayson Tatum (e gli abbiamo chiesto un parere al riguardo…). Sarebbe un risultato incredibile per la 13^ scelta all’ultimo Draft, prodotto di Louisville sbarcato nella lega senza troppa fanfara ma capace di mandare a libri una prima stagione entusiasmante: oltre 20 punti a sera (20.5), 187 triple a segno (record NBA tutti i tempi per una matricola), un career high di 41 punti (arrivato già il primo di dicembre, dopo solo un mese e mezzo di campionato NBA), una media di 6.4 punti segnati nel quarto quarto (nono in tutta la lega, dietro soltanto a Lou Williams, LeBron James, Anthony Davis, Giannis Antetokounmpo, DeMarcus Cousins, Jimmy Butler, Russell Westbrook e Damian Lillard). Mitchell ha chiuso la stagione regolare come il primo rookie dai tempi di Carmelo Anthony nel 2003-04 a guidare da top scorer la sua squadra ai playoff; e una volta ai playoff, ha infranto il record di un certo Michael Jordan per punti segnati da una guardia nelle prime due gare di postseason della propria carriera (27 e poi 28 punti per un totale di 55, contro i 53 di MJ). In attesa degli Awards NBA, la matricola dei Jazz ha seguito da vicino le ultime finali NBA, durante le quali abbiamo avuto l’occasione di intervistarlo in esclusiva. Giacca dorata, collana col n°45 al collo (il numero di Michael Jordan giocatore di baseball, perché è proprio il baseball il primo amore di casa Mitchell, col padre ex giocatore e oggi nello staff dei Mets) e pantaloni neri strappati, ecco cosa ci ha raccontato Mitchell sulla sua prima, entusiasmante stagione.   

Come hai fatto a importi come leader di questi Utah Jazz fin dal primo anno?

Inizia tutto dalla disponibilità dei miei compagni ad accettarmi per quello che sono, permettendomi di sbagliare ma consentendomi anche di essere leader – lo sono sempre stato, mi viene naturale. Non è un qualcosa che succede spesso con un rookie, ma credo nasca dal rispetto che mi sono guadagnato col lavoro, perché mi impegno ogni giorno al massimo per essere il miglior giocatore possibile. Parte tutto da qui, credo”.

Cos’hai imparato dall’esperienza nei playoff di quest’anno, tanto dalla vittoria al primo turno contro i Thunder di Westbrook e George che dalla sconfitta in semifinale di conference contro i Rockets di Paul e Harden?

“L’aspetto più interessante sono gli aggiustamenti e l’attenzione ai dettagli, la cui importanza in una serie di playoff diventa enorme. Impari a capire come il gioco viene analizzato e misurato da parte dei diversi coaching staff, per far sì che sia gli allenatori che i giocatori producano gli adattamenti necessari, di gara in gara, di serie in serie. I nostri game plan contro Houston e OKC ad esempio erano completamente diversi”.  

Dopo la fine dei playoff sei volato a Belgrado per seguire le Final Four di Eurolega, dove hai visto all’opera Luka Doncic. Ci dici che impressione ti ha fatto?

“È un ottimo giocatore, ha sicuramente molto talento e quando scende in campo dà tutto. Contando quanto è giovane, mi ha impressionato molto vederlo fare quello che ha fatto, in campo. Non vedo l’ora di vedere come si comporterà nella NBA, credo abbia davanti a sé un gran futuro”.

Parlando di pallacanestro internazionale, c’è una forte presenza internazionale nel roster degli Utah Jazz, sia tra i giocatori a roster che in panchina [Quin Snyder è stato assistente di Ettore Messina sulla panchina del CSKA Mosca, ndr]. Pensi che questo background internazionale influenzi il vostro stile di gioco?

“Assolutamente, al 100%. Ho detto ai nostri allenatori che mentre guardavo le Final Four a Belgrado ho riconosciuto 4-5 giochi che anche noi utilizziamo normalmente nel nostro playbook. Sicuramente un’impronta internazionale influenza il nostro gioco tanto nelle rimesse in campo, nel modo in cui muoviamo il pallone e cerchiamo di giocare assieme. Sono tutti tratti tipici di un stile di pallacanestro più internazionale che americano, concetti che abbiamo non solo accettato ma proprio sposato in pieno e che mettiamo in pratica ogni sera”.

Per molti tifosi fuori dagli Stati Uniti (e forse anche per qualche fan americano) il tuo nome sembra venuto fuori dal nulla – con la 13^ chiamata al Draft e poca attenzione mediatica. Ci racconti chi erano i giocatori a cui ti sei ispirato crescendo?

“Sono sempre stato un grandissimo fan di LeBron James fin da ragazzino, ma non tutti possono essere alti 2.03 e pesare 115 chili, per cui mi sono concentrato molto di più su un giocatore come Russell Westbrook, per il modo in cui sa finire a canestro, attaccare il ferro e giocare sempre con grande aggressività. È a lui che mi sono ispirato più di tutti, per cercare di modellare il mio gioco sul suo”.

Hai avuto modo di parlarci, di ricevere dei consigli da lui durante la serie di playoff?

“No, durante i playoff no, ma abbiamo parlato un po’ quando ci siamo affrontati in stagione regolare. Mi ha detto di continuare a giocare come stavo facendo, di non cambiare il mio stile, continuare a giocare con la solita aggressività”.

Sei uno dei tre finalisti per il premio di rookie dell’anno. Ci daresti un motivo perché ognuno di voi tre – tu, Jayson Tatum e Ben Simmons – merita di vincerlo?

“Ben [Simmons] ha tenuto 15 punti, 8 rimbalzi e 8 assist di media in stagione: nessuno lo aveva fatto dai tempi di Magic [Johnson], è davvero impressionante. Per Jayson [Tatum]… so che il premio non prende in considerazione i playoff ma guardate quello che ha fatto: è stato incredibile. Alla sua gara-7 mi sono ritrovato davanti alla tv di casa mia a tifare come un tifoso qualsiasi, perché era bellissimo vederlo fare le cose che stava facendo. Per quello che riguarda me, credo che nessuno si aspettasse quello che mi è successo, per cui penso di avere dalla mia l’elemento sorpresa. Credo siano queste le ragioni per ognuno di noi”.

Ti saresti aspettato di avere già un impatto così forte sulla lega al tuo primo anno?

“No, per nulla. Scherzo sempre ripetendo che le mie aspettative erano di entrare nella lega e cercare di guadagnarmi un posto nelle rotazioni di squadra, giocando in maniera solida, facendo tutto il necessario per essere il miglior giocatore possibile. Purtroppo alcuni miei compagni di squadra si sono infortunati e così ho finito per giocare molto di più per via dei loro infortuni, finendo per imparare sia la posizione di point guard che quella di shooting guard: questo mia ha permesso di avere tanti minuti a disposizione e da lì in poi le cose sono letteralmente decollate, si è messo tutto per il meglio e ancora oggi ringrazio Dio per avere avuto queste opportunità”.

Dopo la tua prima stagione NBA, ci daresti una sorta di scouting report su te stesso, le aree del tuo gioco di cui sei soddisfatto ma anche quelle in cui pensi di dover migliorare di più?

“Penso di essere un realizzatore decente ma posso migliorare la mia efficienza offensiva. Non sono un gran difensore, posso migliorare anche lì. Ci sono parecchi aspetti del gioco di cui non sono soddisfatto perché so di poter far meglio, che siano le mie percentuali ai liberi o da tre punti o il rapporto tra assist e palle perse. Ho davvero in testa tante cose che mi viene difficile dire tutte, ma quello che so è che posso sicuramente un giocatore più forte”.

Quanto segui le indicazioni che arrivano dalle statistiche avanzate?

“Molto poco, se non addirittura nulla. A mio avviso possono essere ingannevoli: non si possono misurare il cuore e la passione di qualcuno. Prima del Draft mi hanno detto che non avrei mai potuto giocare da point guard, c’erano dubbi sulle mie doti da attaccante, ero troppo piccolo, senza tiro – c’erano tante cose che mi dicevano non fossi in grado di fare e le statistiche analitiche erano lì a dimostrare che non ne ero in grado. Penso di aver dimostrato che si sbagliavano ed è per questo che non sono un gran fan delle analytics, perché resto una guardia sotto dimensionata ma nessun dato può misurare la voglia di vincere di qualcuno”.

Hai seguito da vicino le ultime finali NBA: Warriors e Cavs hanno due stili di gioco molto diversi. Quali sono le sfide più difficili nel dover affrontare Golden State e Cleveland, da avversari?

“La cosa più dura quando affronti Golden State è che loro in campo non smettono mai di muoversi, sono sempre in movimento, il che rende più difficili gli aiuti difensivi e questo fa sì che tutto si faccia molto più difficile. Contro Cleveland la prima e più importante sfida è cercare di restare davanti e contenere quel tizio [LeBron James ovviamente, ndr] e spesso volentieri non è per niente facile. Se cerchi di raddoppiarlo lui è bravissimo a trovare smarcati i suoi compagni coi passaggi, con letture che neppure pensi siano possibili e che invece lui vede grazie ai 203 centimetri e alle sue grandissime capacità di passatore, di assoluto élite nella lega, e di realizzatore. [LeBron] chiede tantissimo al suo gioco ma riesce sempre a essere all’altezza della sua reputazione”.

Hai detto di averlo sempre ammirato fin da ragazzo: ti ha mai dato consigli LeBron James, al tuo ingresso nella lega?

“Non all’inizio dell’anno ma dopo la nostra prima partita – un po’ come successo con Russell Westbrook – mi ha detto di continuare a giocare come so. Non posso raccontare tutto quello che mi ha detto [ride] ma mi ha consigliato di restare concentrato e non farmi distrarre da nulla, perché se continuo a lavorare duro posso diventare davvero un buon giocatore. Quando l’ha detto forse io ero il primo a non crederci, ma ora forse inizio a crederci un po’ di più, visto tutti quelli che me l’hanno detto. Ha insistito nel dirmi di non smettere mai di lavorare e di non essere soddisfatto del livello a cui sono oggi”.

Quali sono le ambizioni dei Jazz per la prossima stagione?

“Le mie aspettative sono quelle di progredire di almeno un turno di playoff rispetto a quanto fatto quest’anno [significherebbe raggiungere le finali di conference, ndr]. Credo sia un obiettivo condiviso da tutta la squadra: non vogliamo fermarci finché non raggiungiamo questo obiettivo, abbiamo avuto tantissimi giocatori che quest’anno hanno giocato assieme per la prima volta in assoluto e ciò nonostante siamo arrivati al secondo turno dei playoff, per cui credo che se la squadra rimane quella e si continua a giocare bene e lavorare l’obiettivo di far meglio sia alla nostra portata”.