A margine della seconda (e ultima) sfida di regular season contro James Harden, il talento dei Bucks fa il punto su una stagione da MVP e discute l'impatto di coach Budenholzer sul suo gioco e sul suo sviluppo: "Non so come faccia: mi fa giocare meno ma le mie cifre continuano a crescere"
I paragoni erano inevitabili, i pronostici anche, le domande ai diretti interessati pure. Lo scontro diretto tra Giannis Antetokounmpo e James Harden è stata un’occasione troppo ghiotta per costruire un duello che virtualmente desse la risposta mancante (o almeno l’ultimo dei tasselli necessari per dare una risposta) al famoso quesito: chi sarà l’MVP NBA 2019? Ad Antetokounmpo la risposta non interessa poi così tanto: “Non voglio dire che non mi interessi per nulla, sia chiaro – è uno dei miei obiettivi come giocatore poter essere riconosciuto un giorno come il migliore di tutti. Ma quello che non mi interessa è prendere parte a una discussione sterile: ‘Giannis ha detto così, James [Harden] ha risposto così, poi Paul George o Jokic hanno detto questo o quello’. Non mi interessa un dibattito di questo tipo, per cui scelgo di non dire nulla”. Un atteggiamento saggio, che dimostra una maturità ben oltre i 24 anni indicati dalla sua carta d’identità. Non è che il n°34 dei Bucks non sia ambizioso, ma sembra aver già capito che vincere – di squadra – sia più importante che vincere – individualmente – e che ogni riconoscimento personale sarà poi una normale conseguenza degli eventuali successi di Milwaukee. “È per questo che i miei obiettivi sono altri: voglio superare il primo turno di playoff [3 anni, 19 gare disputate, mai approdato al primo turno, ndr], voglio raggiungere le finali della Eastern Conference, voglio andare in finale NBA”. La parola titolo non la pronuncia, si ferma lì, alle porte, forse perché tutto quello che davvero chiede è una chance per potersi mettere al dito il primo anello. “Questi sono obiettivi che per me significano più di un eventuale premio di MVP”, conferma nel corso di una lunga intervista rilasciata a The Athletic: “Alla fine della nostra stagione regolare mancano 8 partite, abbiamo già 55 vittorie e la chance di raggiungere quota 63, se giochiamo nel modo giusto. Ma poi, una volta finita la regular season, che io sia l’MVP o no della stagione, la cosa più importante è che ci sono i playoff da disputare”.
Il rapporto con coach Budenholzer: un nuovo sistema, le difficoltà iniziali
Le parole più interessanti dell’intervista ad Antetokounmpo sono però quello che riguardano il suo rapporto con il suo allenatore, quel Mike Budenholzer all’esordio sulla panchina dei Bucks, il cui arrivo ha in parte rivoluzionato stile di gioco e abitudini della squadra del Wisconsin: “All’inizio non è stato per niente facile, né per me, né per Khris [Middleton], né per Eric [Bledsoe]: un nuovo allenatore, un nuovo sistema, e io ero abituato a giocare in quello di Jason Kidd per gli ultimi 4 anni. Forse Malcolm Brogdon è stato il giocatore che ha avuto la transizione più facile, ma all’inizio per noi è stata dura, una vera e propria battaglia con me stesso e con la squadra”. Antetokounmpo si è ritrovato la palla in mano molto meno che in passato: “L’anno scorso il mio numero di passaggi era senz’altro superiore [le statistiche lo confermano: 57.4 a partita lo scorso campionato, 54.7 quest’anno, ndr] perché avevo di più la palla in mano, giocavo di più da guardia. Quest’anno però gioco in maniera più intelligente, e coach Bud in questo mi ha aiutato moltissimo: so sempre di poter trovare dei compagni negli angoli, quando conduco io la transizione loro non si fermano più in ala ma vanno sempre a occupare gli angoli e mi rendono molto più facile creare gioco. In generale oggi gioco con più consapevolezza: so quali zone del campo occupare, conosco quelle dei miei compagni, so quando essere più aggressivo, quando e come entrare in partita. Conoscendo meglio il nostro nuovo sistema, spero di poter essere ancora più forte l’anno prossimo”. Antetokounmpo conosce meglio il sistema di Budenholzer, Budenholzer conosce meglio Antetokounmpo: “All’inizio dell’anno il coach non pensava che sapessi passare così bene la palla: ‘Sì coach, è una delle cose che so fare’, ho dovuto dirgli”. L’intesa tra i due continua a crescere ma a metterla in crisi potrebbe esserci solo una cosa: la volontà dell’allenatore dei Bucks di limitare i minuti del greco richiamandolo il più spesso possibile in panchina”.
Quattro minuti in meno a sera: fare tanto con poco
Giocare meno per giocare meglio, sembra essere – riassunta in poche parole – la cura di Mike Budenholzer per la propria superstar. Che resta in campo innanzitutto 4 minuti in meno rispetto all’anno scorso, e che quando in campo ha il controllo del pallone per una media di 277 secondi ogni sera (Harden, come paragone, la tiene in mano una media di 565 secondi, più del doppio). “Ho il pallone in mano per tre, quattro, cinque secondi e in quel tempo devo far succedere qualcosa. Ovvio che con questo tipo di gioco non posso collezionare i numeri che colleziona Harden a Houston, che tenendo in mano così tanto il pallone ha più chance prima o poi di far succedere qualcosa, che sia un assist o due/tre punti. Io non sono un giocatore alla Harden, abbiamo stili diversi”. Le differenze tra i due non si fermani ai secondi/minuti in campo e al tipo di utilizzo. In generale Budenholzer ha cercato di tenere in campo Antetokounmpo il meno possibile, solo in 67 delle 74 gare fin qui disputate dai Bucks, per una media di 39.2 minuti (Harden invece ha giocato 70 delle 74 partite dei Rockets, con 37.2 minuti di media): solo due volte il greco è rimasto in campo 40 o più minuti (Harden 18), mentre per ben 14 volte ne ha giocati meno di 30. “All’inizio impazzivo: non sono abituato a giocare solo 30 minuti. Giocavo sempre tutto il quarto quarto. Con coach Bud non succede”. E in una delle prime partite dell’anno – l’esordio al Fiserv Forum, in diretta televisiva nazionale contro Indiana – Antetokounmpo non la prende bene. “Non volevo uscire, ero infuriato, ma con caoch Bud non si può negoziare. Con Jason Kidd era più facile, alla fine lo convincevo, ma con Budenholzer non c’è verso di convincerlo. Ci ho provato per le prime 10-15 partite: ogni volta che mi faceva uscire protestavo. Una volta, poi ancora la volta dopo e quella dopo ancora. Finché ho capito. Gli ho detto che non mi sarei più lamentato e non l’ho più fatto. Ma è dura, vorrei giocare sempre, ogni vola che mi fa uscire è un po’ un colpo alla mia fiducia”. Non che questo calo nell’autostima sembra vedersi in campo, anzi. “È pazzesco – conferma Antetokounmpo – non so come succeda ma oggi gioco meno eppure le mie cifre sono in crescita”. Ma “The Greek Freak” una preghiera per il suo coach ce l’ha: “Vorrei tanto che ai playoff non mi togliesse dal campo così spesso…”.