Ospite d’onore della mostra NBA Crossover, la guardia dei Sacramento Kings ci ha rivelato il segreto dello spogliatoio della sua squadra, la mentalità che gli ha permesso di arrivare fino alla NBA e il suo obiettivo per il prossimo anno, fondamentale per la sua carriera: "Devo migliorare nel prendere contatti e andare in lunetta: se divento più efficiente, posso segnare 25 punti a partita"
Basta stare attorno a Buddy Hield per cinque minuti per capire perché viene soprannominato “Buddy Love”, come suggerisce anche il suo account Twitter. Ospite d’onore della mostra NBA Crossover a Milano, la guardia dei Sacramento Kings ha mostrato una disponibilità e una simpatia veramente rara per un giocatore NBA ogni volta che si è ritrovato a contatto con le persone con cui ha interagito. Affabile, curioso, sempre pronto alla battuta e alla risata: c’è un motivo se su di lui si è detto che ha “quel tipo di carisma che invoglia gli altri a stargli attorno”. Un esempio su tutti: quando è stato chiamato a estrarre dieci numeri da un sacchetto per una sessione “privata” di domande e risposte — dopo averne già passati oltre venti davanti ai clienti di Sky Extra a seguito della visione di gara-1 tra Toronto e Golden State — ha trasformato il tentativo di estrarre i numeri di due tifosi dei Kings presenti con la sua maglia in una divertente gag che ha scatenato le risate di tutti i presenti. Anche nei divanetti sul retro, poi, ha intrattenuto i dieci fortunati per un quarto d’ora di chiacchiere come se fosse il migliore amico di tutti, chiedendo consigli sul cibo e sullo shopping a Milano e mostrandosi estremamente curioso, tanto da chiedere informazioni su come vedere l’Ultima Cena (pur essendo convinto che fosse un quadro e non un affresco, ma si può perdonare). Un comportamento esemplare che conferma quanto di buono è stato detto su di lui in questi tre anni di NBA, dove viene descritto — e si auto-descrive, anche qui con il suo sorrisone stampato sul volto e l’accento bahamense strascicato — come il giocatore più simpatico nello spogliatoio dei Sacramento Kings, una delle squadre più sorprendenti e divertenti della regular season che si è appena conclusa.
L’ambiente positivo dello spogliatoio dei Kings
Quando ci sediamo a parlare con lui dopo aver finito di posare per foto ricordo e aver firmato autografi per tutti, la chiacchierata non può che cominciare dalla stagione, sua e dei Kings: “Nessuno si aspettava che facessimo così bene, ma avevo lavorato tanto con il mio preparatore durante la scorsa estate, mettendoci degli obiettivi individuali abbastanza alti” ha detto. “E sapevo che, se fossero coincisi con quelli della squadra, avremmo potuto avere successo. Con l’andare del tempo ci siamo accorti che potevamo competere con chiunque e questo ci ha dato enorme fiducia: anche se non abbiamo raggiunto l’obiettivo dei playoff, speriamo di portare questa inerzia positiva anche alla prossima stagione ed essere ancora migliori”. La chimica di squadra è stato uno dei segreti del successo dei Kings e nulla lo esemplifica come il suo rapporto con Bogdan Bogdanovic: pur provenendo da parti diversissime del mondo — uno dalle Bahamas, l’altro dalla Serbia — e pur essendo di fatto in competizione per gli stessi minuti — quelli di guardia tiratrice al fianco della point guard De’Aaron Fox —, i due sono diventati amici praticamente inseparabili. “Di sicuro avere chimica ci aiuta: quando ti diverti a giocare con i tuoi compagni anche nei momenti più difficili sai che ciascuno tiene all’altro come persona prima ancora che come giocatore. Se non ti piace giocare con i tuoi compagni, allora non puoi giocare nella nostra squadra: ci vediamo tra di noi più di quanto vediamo le nostre famiglie, perciò andare d’accordo è fondamentale”.
L’obiettivo individuale: andare in lunetta per segnare 25 punti a partita
Nell’ultima stagione Hield insieme a Fox è stato uno dei volti principali della stagione dei Kings, che ha guidato come miglior realizzatore alla ragguardevole media di 20.7 punti a partita. Una quota che hanno raggiunto solo poco più di 30 giocatori in tutta la NBA e che lui è riuscito a costruire soprattutto grazie alle triple, avendone segnate ben 278 nel corso della stagione — una quota che prima del 2014-15 non aveva mai raggiunto nessuno e che, nella storia della NBA, hanno registrato solamente Steph Curry (cinque volte), Klay Thompson (una volta) e James Harden (una volta). “Sono ancora lontano dai loro livelli” ammette Hield, “perché loro sono giocatori che hanno lasciato un segno nella storia del gioco, cosa che io non ho fatto. Ma l’obiettivo è raggiungerli, prima o poi”. Un lavoro che è cominciato già da questa estate con un obiettivo ben preciso per scalare ancora più posizioni in quella top-30: “L’obiettivo è lavorare sulla creazione di contatti per procurarmi più viaggi in lunetta ed essere più efficiente. Lo scorso anno ne ho tirati pochi [2.4 liberi a partita, solo Klay Thompson ha fatto peggio di lui tra i “ventellisti” NBA, ndr] ed è un numero che posso sicuramente migliorare. Se riuscissi a tirarne quattro-cinque-sei in più, riuscirei a far salire la mia media punti a 25 a partita, che è l’obiettivo per l’anno prossimo”.
Dalle Bahamas alla NBA credendo in se stesso
La personalità rilassata di Hield fa da contraltare alla sua ambizione e alla sconfinata fiducia nei suoi mezzi, entrambe retaggio del suo passato alle Bahamas dove “la vita è diversa e dove bisogna avere quel tipo di carisma e quel tipo di atteggiamento, che poi mi sono portato dietro con me anche negli Stati Uniti”. Se ci pensate bene, i giocatori NBA arrivati dalle Bahamas si contano sulle dita di una mano: i due più famosi sono Mychal Thompson (prima scelta al Draft 1978, due volte campione NBA e papà di Klay) e Rick Fox (pluri-campione NBA con i Los Angeles Lakers), ma tra loro due e i due attuali rappresentanti delle isole nella lega (lui e Deandre Ayton dei Phoenix Suns) passa un “buco” generazionale di oltre venti anni. E anche Hield ha fatto grande fatica ad emergere, complice un fisico che è esploso in altezza relativamente tardi: “Ero piccolo e gracilino ma ho sempre avuto grande fiducia in me stesso, anche a 12 anni quando nessuno mi voleva io credevo di potercela fare, forse anche perché sono un po’ cocciuto” spiega Hield. “Neanche mia madre mi poteva dire nulla: ho sempre fatto tutto a modo mio, convinto che il mio modo fosse il migliore. Da ragazzino forse non era la cosa giusta da fare, ma mi ha permesso di emergere nella vita anche senza avere un padre attorno a guidarmi. La pallacanestro era la mia oasi di pace e mi ha aiutato in tutto: mi ha insegnato a lavorare per ottenere quello che volevo, che era la NBA”.
Le bocciature e i quattro anni al college con il sogno della NBA
Per farcela ha dovuto superare ben quattro bocciature a un campus organizzato nelle Bahamas, prima che finalmente al quinto un allenatore di un liceo nel Kansas lo scegliesse non per le sue qualità tecniche o fisiche, ma per la sua personalità e la sua voglia di vincere. Il trasferimento nelle campagne del bel mezzo degli Stati Uniti, però, è stato tutt’altro che semplice: “Alla partenza mi sentivo carico, ma quando sono arrivato là mi sono sentito perso. Ero abituato a un’altro tipo di vita dopo 17 anni su un’isola, e quando arrivi nel Kansas è tutto così diverso: per me è stato uno shock culturale. Mi sono dovuto abituare, ma sapevo di dover fare dei sacrifici se volevo farcela”. Nelle storie di tutti i giocatori NBA c’è sempre un momento nel quale avrebbero potuto mollare e invece hanno perseverato, ma nel caso di Hield sembrano essercene davvero più della media. Se non è normale che un giocatore dalle Bahamas arrivi alla NBA, lo è ancora di meno che un giocatore rimasto al college per quattro anni venga scelto alla Lottery del Draft come successo a lui nel 2016. “Di solito rimani quattro anni al college se vuoi laurearti, ma se hai in testa la NBA non è la cosa migliore. Tutti quelli che vogliono diventare professionisti pensano allo ‘One & Done' perché è la via più facile per guadagnare soldi e sistemare la propria famiglia: è il sogno americano in tutto e per tutto. A me è andata bene perché rimanendo un anno in più ho migliorato enormemente la mia posizione al Draft, finendo poi alla 6. Non è stato tanto un miglioramento come persona, quanto il fatto che non era il mio momento: sono stato intelligente nella scelta di non uscire prima del tempo e rimanere anche il quarto anno”.
L’obiettivo per il futuro: "Vincere il titolo e guadagnare tanti soldi"
Il suo ultimo anno a Oklahoma, infatti, è stato contrassegnato da svariati premi individuali e uno storico viaggio alle Final Four del torneo NCAA. Una cavalcata talmente spettacolare da valergli un balzo di almeno 20 posizioni al Draft, selezionato dai New Orleans Pelicans per poi passare a Sacramento nell'ambito dello scambio di DeMarcus Cousins. La prossima stagione sarà già fondamentale, visto che al termine del suo quarto anno in NBA sarà restricted free agent e dovrà guadagnarsi un contratto in grado di cambiare la sua vita. Per riuscirci dovrà guadagnarsi la fiducia del nuovo coach Luke Walton — che non ha ancora incontrato di persona ma ha sentito via telefono, con la promessa di vedersi non appena rientrerà da questo viaggio in Europa — e migliorare i risultati dei suoi Kings, centrando quella qualificazione ai playoff che nella capitale della California non vedono addirittura dal 2006. Ma il traguardo che Buddy Hield pone per se stesso, come è facile immaginarsi dopo averlo conosciuto, è molto più in alto: “Cosa voglio dal mio futuro? Diventare campione NBA e guadagnare un sacco di soldi, così da sistemare la mia famiglia per il resto dei nostri giorni e per le generazioni a venire a partire dalla mia bellissima figlia. Ma la NBA è dura, non puoi prenderti neanche un giorno di pausa perché c’è sempre qualcuno pronto a prendere il tuo posto. Bisogna sempre essere preparati”. Con il sorriso sulle labbra e una personalità rilassata, ma con la concentrazione di chi vuole sempre il massimo.