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NBA, anteprima: "Rodman: for better or worse" mette a nudo luci&ombre del "Verme"

NBA

Un ritratto appassionato e appassionante di uno dei più grandi difensori e rimbalzisti della storia della NBA, ma anche di uno dei suoi personaggi più incredibili: una personalità prima timida e riservata, poi esplosa in maniera pirotecnica. I mille significati del fenomeno Rodman, una storia unica a cui manca però il lieto fine

RODMAN: "IO, JORDAN E PIPPEN IL PRIMO BIG THREE"

A Detroit, negli anni dei Bad Boys, “ero più famoso di Isiah Thomas”. A Chicago, nei Bulls imbattibili degli anni ’90, “ero più amato di Michael Jordan”. Le ennesime esagerazioni di un personaggio, Dennis Rodman, che dell’esagerazione ha fatto il simbolo della sua carriera (e della sua vita)? Nient’affatto, si scopre guardando l’ultimo, bellissimo documentario della serie 30for30 prodotto da ESPN, intitolato Rodman: for better or worse, diretto da Todd Kapostasy. Che per indagare uno dei personaggi più esplosivi e controversi che la NBA abbia mai visto parte ovviamente dall’inizio, dal Rodman bambino, descritto con una parola ricorrente fino alla nausea: shy, timido. Sono proprio la timidezza e la situazione familiare (il padre abbandona presto la famiglia, Dennis cresce con sua madre e le due sorelle, senza una figura maschile a fargli da guida) a formare la personalità del futuro campione NBA. Fin da bambino ad esempio è compagno quasi obbligato di giochi delle due sorelle, che lo vestono e truccano da donna contribuendo così a formarne un’identità sessuale ambigua e fluida, che poi sarà un tratto dominante del suo personaggio pubblico, che dopo gli anni di Detroit – che lo vedono due volte campione NBA, miglior difensore NBA ma che, dopo l’addio del suo coach/padre Chuck Daly, si chiudono con i famosi pensieri suicidi, fucile in mano, parcheggiato nella notte fuori dal Palace di Auburn Hills – esplode in maniera pirotecnica prima con l’approdo a San Antonio e poi con il passaggio a Chicago. La trasformazione da outsider timido e introverso a showman senza freni e inibizioni coincide proprio con l’addio ai Pistons e il passaggio agli Spurs, quando Rodman sceglie di non nascondere più la propria natura e – forte del riconoscimento pubblico che il successo nella NBA gli garantisce – si mette alle spalle tutte quelle insicurezze generate dalla sua storia familiare, che lo aveva visto anche finire brevemente in carcere per un furto all’aeroporto di Dallas. È con il ritorno in Texas – dalla Dallas della sua infanzia a San Antonio – che esplode il Rodman che tutto il mondo ha finito per conoscere: i capelli tinti di mille colori (il mohawk biondo – rivela il documentario – è un omaggio al personaggio di Wesley Snipes in Demolition Man, film che Rodman aveva appena visto), la personalità esuberante, l’abbigliamento stravagante e soprattutto le frequentazioni glamour, compresa la storia d’amore da copertina con Madonna (che si presenta all’ultima partita di regular season degli Spurs della stagione 1993-94, attirando attenzioni mai viste prima all’ombra dell’Alamo). 

Dennis Rodman: un inno alla diversità

E con i capelli colorati arriva anche una cover story di Sports Illustrated intitolate Rare bird (uccello raro) in cui Rodman parla apertamente di fantasie omosessuali, del suo amore per i look da drag queen e delle frequentazioni in vari bar gay di San Antonio: un inno alla diversità che 25 anni prima degli appelli di Kevin Love e DeMar DeRozan contribuiscono a mandare in frantumi quella visione machista e imbattibile solitamente associata al giocatore NBA (e allo sportivo in genere). Pur consapevole delle possibili reazioni di una parte di America (“Intanto però mi riempiranno di soldi”, taglia corto Rodman) il n°10 degli Spurs ormai non si ferma più, finendo per alienarsi le simpatie di un Texas non certo progressista, uno dei motivi per cui gli Spurs decidono di disfarsi del giocatore cedendolo niente meno che ai Bulls di Phil Jackson e Michael Jordan, a lungo suoi rivali ai tempi dei Bad Boys di Detroit. Il Rodman pirotecnico raggiunge il suo apice proprio nel periodo a Chicago, quando “The Worm” (settimane dopo aver vinto il titolo NBA 1998) organizza il suo matrimonio per le strade di New York in occasione del lancio del suo primo libro Bad as I wanna be e si presenta… come sposa (in vestito bianco e velo). “Mi aspettavo qualche centinaio di persone, ce n’erano migliaia e migliaia”, dice tra il sorpreso e il divertito: su MTV, su CNN con Larry King, sui quotidiani e sulle riviste è il momento di massima esposizione mediatica per il rimbalzista principe della NBA (7 corone di miglior rimbalzista consecutive) ma anche l’inizio della fine. I Bulls imbattimbili si sfasciano (il ritiro di Jordan, l’addio di Jackson), Rodman non ha più freni (“Usciva e beveva 5 giorni su 7, il sabato e la domenica restava in casa e si preparava ad altri 5 giorni di party”, racconta la moglie) e a complicare il tutto arriva anche il rientro in scena del padre, Philander, che riappare dalle Filippine – dove ha avuto 25 figli da un numero imprecisato di donne – e vuole anche lui una fetta del fenomeno Rodman. 

Manca il lieto fine

La sua carriera precipita, prima con l’apparizione ai Lakers e poi con quella, ancora più disastrosa, ai Mavericks, che chiudono definitivamente il suo periodo NBA: i riflettori però non possono spegnersi, Rodman ne ha bisogno per sentirsi apprezzato, e allora arriva l’ultima, incredibile reincarnazione: portavoce non ufficiale del governo USA nei rapporti con la Corea del Nord, il cui leader (e dittatore) Kim Jong-un professa una passione insospettabile per la NBA fin dai tempi dei suoi studi liceali in Svizzera. “Un mio grandissimo amico”, dice Rodman del numero uno nord-coreano (che nel frattempo minaccia gli Stati Uniti forte del suo arsenale atomico): lo strano rapporto tra i due apre in qualche modo le porte all’incontro Trump-Kim Jong-un ma le apparizioni pubbliche di Rodman lo vedono sempre meno lucido e alle prese con evidenti problemi di dipendenza dall’alcool (“Immaginatevi un giocatore NBA che in club ordina un bicchiere di latte”, racconta il compagno ai Pistons John Salley del primo Rodman, ormai quasi dimenticato). Perché alla storia di Dennis Rodman – e al bel documentario di Todd Kapostasy – manca il lieto fine, perché un documentario non è fiction e nella vita reale non sempre le cose finiscono bene: è vero, l’ex campione NBA con Pistons e Bulls fa il suo ingresso trionfale nella Hall of Fame (introdotto da Phil Jackson) ma il suo discorso è un pianto quasi ininterrotto in cui Rodman sembra quasi voler fare i conti con una vita di cui – ora più che mai – fa fatica a trovare un senso. “Avrei voluto essere un padre migliore”, il suo unico rimpianto: sembra che Kapostasy voglia quasi indicare a Rodman la strada per l’ennesima risalita, ma poi per la scena finale lascia Rodman da solo, davanti alla telecamera. Parla di felicità. Che però sembra lontana.