Ha lasciato Charlotte dopo 8 anni come miglior realizzatore di sempre della franchigia, diventando un All-Star NBA. Ora torna alla guida dei Celtics, in vetta alla Eastern Conference. Il motivo per cui ha detto addio agli Hornets è tutto qui
È andato via dopo 8 anni. Ha lasciato Charlotte come il miglior marcatore di sempre nella storia della franchigia. Con la maglia degli Hornets è diventato un All-Star (tre volte) e l’anno scorso ha visto anche il suo nome inserito per la prima volta nei quintetti All-NBA (terzo quintetto, insieme a LeBron James e Russell Westbrook, a Blake Griffin e Rudy Gobert). Nella notte Kemba Walker torna a Charlotte, nella sua Charlotte, per la prima volta. Da avversario. “Ma non mi aspetto fischi. Non vedo perché dovrebbero fischiarmi”, dice in tutta onestà. “Spero mi accolgano alla grande”. Sarà così, perché i tifosi non possono aver dimenticato gli oltre 12.000 punti (12.009) segnati dall’ex campione NCAA con UConn in maglia Hornets e anche perché le responsabilità del suo addio sono da attribuire più alla dirigenza della squadra che al giocatore. Kemba Walker ha sempre sostenuto che lui a Charlotte ci sarebbe restato volentieri, ma l’offerta arrivata dal front office non andava neppure vicina al massimo contrattuale che la point guard del Bronx si era meritato sul campo. Il suo massimo contrattuale, per cinque anni, era di 221 milioni di dollari, l’offerta di Charlotte si è fermata a 160. Troppo poco. Ecco allora che i 141 milioni messi sul piatto da Boston – non per cinque ma per quattro anni – sono sembrati la soluzione migliore, anche perché con i Celtics Walker punta finalmente in alto, a quei playoff giocati soltanto due volte nel North Carolina – e perché no, anche al titolo NBA. “Con lui abbiamo disputato grandi annate – dice il gm degli Hornets Mitch Kupchak – ma arrivare ai playoff era sempre un’impresa: cosa avrebbe dovuto farci pensare che quest’anno sarebbe stato diverso?”. Un’affermazione forse poco gentile nei confronti dell’ex All-Star di casa, che stride un po’ con le parole pronunciate dai suoi ex compagni di spogliatoio, che non vedono l’ora di tornare ad abbracciarlo – anche se da avversario – e hanno solo attestati di stima per lui. “Se uno sconosciuto fosse entrato nel nostro spogliatoio, non si sarebbe mai accorto che la stella della squadra era Kemba”, afferma Nicolas Batum, oggi tra i veterani del roster di Charlotte. “Mai un comportamento da star, mai sopra le righe, non ha mai saltato un allenamento”. “Umile e sempre disponibile con tutti”, conferma un giovane come Malik Monk, che rivela: “Lo seguo e lo ammiro dal 2011, da quando l’ho visto vincere il titolo NCAA con UConn”. I suoi ex compagni ricordano di quando Walker alzava la voce durante un timeout solo per pronunciare due parole: “Winning time”. “Voleva avvisarci che da quel momento avrebbe fatto di tutto per trascinarci alla vittoria, e di solito nel giro di un paio di minuti faceva qualcosa di straordinario. Era magico”, racconta Marvin Williams. Arriva alla guida di una squadra, i Celtics, che dopo aver perso l’opener stagionale contro i Sixers non ha più conosciuto la parola sconfitta, e oggi è in vetta alla Eastern Conference, con 5 vittorie e un solo ko. Walker è il miglior realizzatore della squadra, con 26 punti a partita, niente di nuovo per lui, che era abituato a esserlo anche a Charlotte. Quello a cui non era abituato è che nel roster di coach Brad Stevens ci sono altri due giocatori oltre i 20 di media, Jayson Tatum e Gordon Hayward – e qui c’è tutto il motivo della sua scelta di lasciare Charlotte per sposare il progetto di Boston. Per vincere, qualcosa che forse, in maglia Hornets, non sarebbe mai riuscito a fare.