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NBA Finals 1998, Chicago Bulls-Utah Jazz: perché guardare gara-3 su Sky Sport

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©Getty

Una delle partite entrate nella storia delle Finals, anche se non per merito degli Utah Jazz. La difesa dei Chicago Bulls è l'assoluta protagonista di gara-3, il vero segreto della squadra che negli anni '90 ha vinto sei titoli in otto anni

Chicago Bulls 1998. Michael Jordan. Attacco. Punti. Schiacciate. Eppure c’è qualcuno, all’interno di quella squadra, convinto che quei Bulls fossero costruiti innanzitutto sulla difesa. Quel qualcuno è Luc Longley, certo non il nome più sexy di una squadra che poteva contare oltre che su Jordan anche su Scottie Pippen, Dennis Rodman, Toni Kukoc, Steve Kerr… “Della nostra difesa eravamo orgogliosi almeno quanto del nostro attacco”, afferma però il centro australiano partito in quintetto anche in gara-3 della serie di finale contro i Jazz, il 7 giugno 1998. Una gara — anzi, la gara — che sembra confermare al meglio le sue parole, tanto che i Bulls, tornati sul parquet amico dello United Center (dove dal 1996 nei playoff hanno perso solo 3 partite, una in gara-1), stabiliscono non uno ma ben due record che ancora oggi restano imbattuti per una partita di finale NBA: margine di vittoria (+42) e minor numero di punti concessi agli avversari (54, in 48 minuti, con i Jazz tenuti a 9 punti nell’ultimo quarto). Jordan è come sempre il miglior marcatore di quella partita (24 punti) ma è la difesa il motivo per cui oggi — anche a 22 anni di distanza — è ancora super attuale (ri)guardare gara-3.

L’organizzazione difensiva dei Bulls

Un autentico clinic difensivo, favorito dai centimetri che di certo non mancavano in quel roster dei Bulls: Jordan e Harper, le due guardie titolari, erano entrambe 1.98; Rodman toccava i due metri, Pippen era 2.03, fino ad arrivare ai 218 centimetri proprio di Longley. Eppure Jordan era agile abbastanza da stare su John Stockton (13 centimetri più basso di lui), Harper riusciva a tenere Jeff Hornacek, Pippen all’evenienza poteva marcare addirittura il centro avversario, Greg Ostertag, e metterlo in difficoltà con la sua mobilità e le braccia lunghe: “Pippen difensivamente stava in questa posizione di mezzo, un passo più su rispetto al post basso — racconta Longley — ma con le sue braccia interminabili riusciva a difendere sul perimetro i tiratori da tre, negando così con la sua presenza ogni passaggio interno”. Ovviamente il pericolo pubblico n°1 dei Jazz era Karl Malone, ma per contenere “Il postino” coach Jackson aveva organizzato una staffetta che prevedeva Longley all’inizio per poi lasciare Malone nelle grinfie di Dennis Rodman. Malone si conferma cliente difficile per tutti (segna i primi sei tiri della sua partita e 12 dei primi 14 punti dei Jazz) ma i Bulls mettono la museruola al resto del roster di coach Sloan: 46 errori al tiro su 59 (22%) e dopo ogni tiro sbagliato pochissime chance di catturare il rimbalzo d’attacco (solo 9 in tutta la gara, contro i 36 difensivi dei Bulls), cui si aggiungono la bellezza di 26 palle perse. Un massacro, per i Jazz, un’autentica caporetto, ma forse la gara più bella della serie per ridare spolvero al famoso detto attribuito a Bear Bryant, leggendario allenatore di football ad Alabama: “Con l’attacco si vincono le partite, con la difesa si vincono i titoli”.