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NBA Finals, il fattore X Bruce Brown: il coltellino svizzero di Denver, incompreso ai Nets

NBA

Mauro Bevacqua

In un'intervista esclusiva ai microfoni di Sky Sport prima del via della serie di finale contro i Miami Heat, il giocatore dei Nuggets ci ha raccontato il suo passato (proprio a Miami, al college, con la maglia degli Hurricanes), le difficoltà in NBA ("A Brooklyn mi utilizzavano da 4 o da 5") e la libertà di essere finalmente se stesso ritrovata in Colorda: "Qui ho il semafore verde per giocare la mia pallacanestro"

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DENVER - C'è una persona, nel roster dei Nuggets, per cui queste finali sono quasi una chiusura del cerchio. Bruce Brown ritrova Miami - solo che sono gli Heat, non gli Hurricanes, dove Brown ha trascorso i suoi due anni al college - ma la città della Florida per il n°11 di Denver mantiene un significato speciale: "In estate andavo ad allenarmi sempre in palestra con alcuni giocatori degli Heat [dal 2016 al 2018, quando aveva vent'anni]. Cercavo di far vedere la mia faccia più possibile in giro", dice Brown ricordando quelle estati. A dire il vero c'è un'altra squadra che ha un posto particolare nel cuore del nativo di Boston, e sono proprio quei Celtics che ha rischiato di ritrovarsi davanti in finale NBA, dopo aver fatto il tifo per loro da ragazzo: "Ma non avevo preferenze su chi affrontare", ci dice. "Certo, sarebbe stato bello tornare a casa e giocare le Finals davanti alla mia famiglia, nella città dove ho visto la maggior parte delle partite NBA da ragazzino, ma anche a Miami ho ancora la mia gente, dai tempi del college". 

La minaccia Miami Heat

Niente Celtics, allora: la strada per l'anello passa per gli Heat, su cui Brown ha le idee chiare: "Giocano duro, bisogna rispettarli. So che in molti hanno parlato a lungo dei tanti giocatori undrafted nel loro roster, ma questi sono dei 'cagnacci', giocano duro ogni possesso, fanno sempre la giocata giusta: dobbiamo farci trovare pronti". 

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Brown le idee chiare le ha anche sulla sua parabola di giocatore, finalmente esploso a Denver dopo che a Brooklyn (nei due anni trascorsi in maglia Nets al fianco di Irving e Durant) si è spesso sentito incompreso dal punto di vista tecnico/tattico dal coaching staff. "Mi utilizzavano da cinque o da quattro, la gran parte dei miei punti arrivavano in area o appena fuori dall'area; qui invece mi impiegano da uno o da due, e ho avuto il semafore verde per giocare la mia pallacanestro", ci racconta appena prima di gara-1. "La gente probabilmente pensava che io non sapessi tirare, ma tutti i tiri su cui mi allenavo in allenamento erano tiri che poi non potevo prendermi in partita. Non potevo stare tanto dietro la linea del tiro da tre, e infatti a Brooklyn tiravo mezza tripla a partita di media. Quando però ho potuto tirare di più [da tre], nella seconda parte della stagione, l'ho fatto con il 40%, e a quel punto la gente non ha avuto più niente da ridire". Oggi quindi Brown, all'occorrenza, sa anche essere pericoloso in attacco, pur non dimenticando - lui per primo - la caratteristica che lo ha reso un giocatore NBA vincente: "In campo faccio tutto quello che serve alla squadra, non importa cosa sia - portare i blocchi, andare a rimbalzo, segnare. Ma sono un difensore prima di tutto: è così che ho messo un piede nella lega, è così che mi sono guadagnato i minuti in campo. Io resto un difensore".