Isaiah Hartenstein: "Ho dimostrato di valere il livello massimo dell'NBA"

È una storia strana, quella di Isaiah Hartenstein. Un ragazzo nato a Eugene, nell’Oregon . Cresciuto a Portland, dove stravedeva per i Blazers di Brandon Roy ma si era comprato la canotta n°30 di Rasheed Wallace. Ad allenarlo ci pensava il padre, Florian, che al college aveva giocato sia a basket che a football americano . E quando la carriera sotto canestro di papà Florian lo porta in Germania, Isaiah segue a ruota. Nel 2014 è campione Under 16 con la maglia degli Artland Dragons, con cui poi debutterà in Bundesliga, perdendo così l’eleggibilità per il college. Il suo viaggio lo porta anche in Lituania, a Kaunas, dove gioca per lo Zalgiris, ma nell’aprile 2017, proprio nella “sua” Portland, si tiene l’Hoop Summit, vetrina di talenti liceali, e il suo nome è tra i convocati per la squadra internazionale . Quell’estate si dichiara per il Draft: viene scelto, ma solo al secondo giro, 43^ chiamata assoluta, per mano degli Houston Rockets. Ma questo non vuol dire che per lui si aprano subito le porte della NBA. Il suo primo anno da professionista in America, infatti, lo passa in G League, nei Rio Grande Valley Vipers, la “controllata” dei Rockets, ma per l’esordio NBA bisogna aspettare il via del campionato successivo, quella stagione 2018-19 che lo vede collezionare 28 presenze a Houston ma prendersi le soddisfazioni maggiori in G League, vincendo il titolo nel 2019 con i Valley Vipers e finendo per essere votato MVP delle finali, dopo una partita da 33 punti con 8 triple a segno nella gara decisiva della serie. È il momento della svolta? Non proprio. Segue un’altra stagione interlocutoria ai Rockets e una terza iniziata a Denver, con i Nuggets, e chiusa a Cleveland, con i Cavs. Ma ancora nel 2021, a quattro anni dal Draft, la sua carriera NBA sostanzialmente non esiste, marginale al massimo. Poi qualcosa cambia. Raccontaci i tuoi inizi in NBA, e il processo di crescita che ti ha portato fino a qui. "Soprattutto all’inizio non è stato facile. Probabilmente solo quando sono arrivato ai Clippers ho sentito finalmente di avercela fatta, ho capito di poter giocare con costanza in questa lega. Tyronn Lue mi ha aiutato molto in questo, mi ha messo nelle condizioni migliori per emergere e avere successo. Ma il momento in cui ho veramente sentito di far parte di questa lega ad alto livello è stato l’anno scorso a New York, quando penso di essere stato uno dei migliori lunghi di tutta la lega. E ora sto continuando a dimostrarlo, in una squadra vincente". Cosa ha guidato la tua scelta estiva di firmare con gli Oklahoma City Thunder? "Erano primi a Ovest già lo scorso anno, per cui sapevo quanto fossero forti, ma sentivo che mi sarei potuto inserire bene. Questa credo sia la cosa più importante: ero convinto che sarei stato in grado di fare quelle cose in cui magari loro non eccellevano, e di riuscire a farle in maniera naturale, senza sforzo. E finora ha funzionato tutto alla grande". Lo dice il vostro record, il migliore della lega, e la presenza di una superstar assoluta come Shai Gilgeous-Alexander: è lui l'MVP NBA quest'anno? "Per me sì, per me è facile dire Shai. Penso che abbia dimostrato di meritarselo, sera dopo sera. Abbiamo il miglior record della lega, ma quello di cui la gente non parla molto è di come gioca in difesa. Dà il massimo su entrambi i lati del campo: ogni sera segna 30 punti ma si impegna anche difensivamente. Il modo in cui si spende in difesa e si sacrifica per la squadra è fantastico: non penso che saremmo nella posizione in cui siamo oggi senza di lui". Con Holmgren fuori a lungo, hai giocato spesso da unico lungo vero nel quintetto di coach Daigneault, che ora però pare favorire un lineup a due big che ti vede giocare al fianco di Chet. Cosa ne pensi? "Penso ci aiuti molto avere due lunghi in campo. Siamo entrambi forti a proteggere il ferro, ma anche in attacco possiamo far bene, muovendo il pallone, cercandoci a vicenda. Io non mi sento un centro tradizionale e questo ci permette di giocare assieme, perché non sono un lungo statico che va in post. Preferiamo entrambi muoverci, sappiamo giocare il pick and roll e fino a questo momento la nostra intesa ha funzionato benissimo". La tua splendida stagione testimonia che hai trovato la tua dimensione ai Thunder. E poi il tuo "push shot" è diventato un autentico culto NBA: com'è nato? "Da ragazzo giocavo più da 3 o da 4, per cui mio padre me l’ha insegnato presto. Non lo usavo così spesso come lo uso ora, ma quando sono arrivato in NBA e mi hanno detto di non prendermi più tiri dalla media distanza ho dovuto trovare un tiro da utilizzare contro avversari altissimi, gente come Wembanyama o simili, un tiro in cui so di potermi rifugiare, con costanza - e per adesso direi che ha funzionato bene. Sì, direi proprio che è il mio tiro preferito".

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Mauro Bevacqua