A Oklahoma City pregano (che sia la volta buona?): la strana tradizione dei Thunder

Prima di tutto va detta una cosa: non è una preghiera. “È un’invocazione aconfessionale” – fanno sapere da Oklahoma City – ovvero “un’opportunità per i nostri tifosi di pregare, se vogliono pregare, ma anche solo di avere un momento di riflessione silenzioso, da utilizzare come meglio credono”. Ha luogo pochi momenti prima di ogni palla a due delle partite interne dei Thunder, prima dell’inno nazionale, e non da oggi. Anzi, da quando i Thunder ancora neppure esistevano. Sono arrivati a Oklahoma City da Seattle, al via della stagione 2008-09, ma prima in città avevano ospitato per un paio di stagioni gli allora New Orleans Hornets sfrattati dalla Lousiana dall’impatto dell’uragano Katrina. Era l’estate del 2005, e l’autunno seguente pensare di poter ricominciare a giocare a basket come nulla fosse in una città – New Orleans – ancora distrutta dal passaggio dell’uragano era impossibile. La franchigia chiese ospitalità a Oklahoma City e, fino al 2007, Chris Paul e compagni fecero assaggiare cosa voleva dire la pallacanestro professionistica a un pubblico abituato solamente a gioire per i Sooners o i Cowboys , a livello NCAA. Un anno dopo – “rapiti” da Seattle – sarebbero arrivati gli-artisti-precedentemente-conosciuti-come Supersonics, prontamente ribattezzati Thunder. E la tradizione dell’invocazione prepartita è continuata a ogni partita di OKC. Non è una cosa comune. Di tutte le franchigie nei principali sport professionistici americani solo un’altra prevede un rito simile. Sono i Carolina Panthers della NFL, e la collocazione geografica non è un caso. Perché se si vuole capire da dove nasce il momento di riflessione che a ogni partita dei Thunder precede la palla a due bisogna andare proprio in North Carolina, stato famoso per la pallacanestro universitaria ma che nella seconda metà degli anni ’80 mette gli occhi anche sulla chance di avere una squadra NBA. Il progetto fa capo a George Shinn, che va a New York per incontrare l’allora commissioner NBA David Stern alla sede NBA sulla Fifth Avenue. Dalla finestra dell’ufficio di Stern ai piani alti dell’Olympic Tower si ammirano le guglie della St. Patrick Cathedral – e se Stern quel pomeriggio l’avesse fatto avrebbe visto Shinn entrare in chiesa solo pochi minuti prima del loro incontro. Prima di presentarla al commissioner NBA, infatti Shinn la sua richiesta la fece – da uomo di fede battista – all’Altissimo: portare una franchigia NBA a Charlotte. Non si conosce la risposta ottenuta tra i banchi della chiesa, ma da Stern ottenne un sì, e nel 1988 – insieme ai Miami Heat – debuttarono nella lega anche gli Charlotte Hornets. Shinn, proprietario della nuova franchigia, ricordandosi di quella preghiera rivolta al cielo in un pomeriggio newyorchese decise che prima di ogni partita degli Hornets a “the Hive” si sarebbe recitata una preghiera di ringraziamento . Alle gare degli Hornets il rito della preghiera prepartita venne dismesso soltanto nel 2011, quando la franchigia – tramutatasi a partire dal 2002 in New Orleans Hornets e concluso il biennio in “esilio” a Oklahoma City – era già tornata in Lousiana. Qui, in una città soprannominata “The Big Easy” per un approccio diciamo rilassato e indulgente verso la vita e i suoi piaceri, l’invocazione spirituale ha meno presa: capita che a recitarla sia il sindaco cittadino o pastori evangelisti dalle richieste ancora più radicali . A Charlotte, invece - dove dal 2004 la squadra, per un decennio, assume il nome di Bobcats – basta l’arrivo di un nuovo proprietario. È l’afroamericano Robert L. Johnson, boss del network BET , che liquida la faccenda in maniera ancora più sbrigativa: “Una giornata passata a leggere le lettere di proteste arrivate al giornale locale mi è bastata…”. Fine della storia? Tutt’altro. Perché se nel 2007 gli Hornets smettono di chiamare Oklahoma City casa, dal 2008 in città arrivano i Thunder e allora, a un pubblico già abituato, riproporre l’invocazione prepartita sembra cosa naturale. Stato a larghissima maggioranza cristiana – il 72.6% si identifica come protestante, il 9.3% come cattolico – in Oklahoma certi valori fanno facilmente breccia tra i tifosi. Gli stessi professati dalla moglie del proprietario di OKC Louise Gaylord, ricca ereditiera vicina alla chiesa presbiteriana che frequenta con costanza insieme al marito, Clay Bennett . In quegli anni i Thunder – con Durant, Westbrook e Harden – diventano in fretta presenza fissa ai playoff fino a raggiungere la finale NBA nel 2012: la loro arena – tra le più rumorose di tutta la lega – è soprannominata “Loud City” ma per quel breve momento, prima dell’inno, il pubblico ammutolisce, non si sente volare una mosca. Ieri come oggi. Dura poco – l’indicazione è che l’invocazione non superi i 30 secondi – ma non per questo passa inosservata nei circoli NBA. Ci si assicura che resti “aconfessionale”, il più possibile inclusiva: “Meglio non dire Gesù”, è il suggerimento . Il reverendo William Hamill, della diocesi cattolica di Tulsa, chiede di “pregare per i giocatori, perché dimostrino sportività, oltre al loro straordinario talento”. Il reverendo James L. Dunbar, pastore della chiesa episcopale metodista, invoca “protezione anche per gli allenatori, gli arbitri, i tifosi e chiunque lavori all’arena”. Al rabbino Vered Harris, del tempio B’nai Israel di Oklahoma City, è stato chiesto di ricordare la scomparsa di un arbitro NBA, Greg Willard: “Preghiamo per sua moglie, i suoi figli, i suoi amici”. E poi c’è stato quel giorno in cui il reverendo Ronnie Fields ha chiesto di pregare per la pace nel mondo , solo che la partita dei Thunder è quella successiva alla sfida coi Lakers in cui Metta World Peace rifila una gomitata all’idolo di casa James Harden guadagnandosi 7 turni di sospensione. “È normale pregare per la pace nel mondo. Ma forse quella volta il contesto ha aggiunto qualcosa di speciale…”, ammette Fields. “La fede è un aspetto fondamentale, per tante di queste persone”, dice Dan Mohoney, dal 2008 Vice President Broadcasting and Corporate Communications degli Oklahoma City Thunder. “Questa tradizione riflette ciò che è la nostra comunità: i tifosi hanno dimostrato di amarlo e apprezzarlo tantissimo”. Difficile immaginare lo stesso a Los Angeles, o a New York ma l’Oklahoma fa parte della famosa “Bible Belt” dove l’influenza della religione è più forte. “Oklahoma non è solo sinonimo di religione e Dio”, afferma però il rabbino Harris: “Vuol dire anche comunità. Vuol dire affermare certi valori. Un’idea di umiltà, qualcosa di più grande e importante di tutti noi”.

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Mauro Bevacqua