L’era dei ‘Big Three’ è davvero finita? Chiedetelo a Oklahoma City

La cesura, non c’è nemmeno bisogno di ribadirlo, riporta una data ben precisa: 8 luglio 2010. È infatti quello il giorno, o per meglio dire la serata in cui ‘ESPN’ trasmette in diretta ‘The Decision’, format inventato sul momento per catturare al meglio la spasmodica attenzione che accompagna per l’appunto ‘la decisione’, ovvero la scelta in mano a LeBron James. Dopo sette stagioni a Cleveland, James è diventato ufficialmente free agent da poco più di una settimana e l’annuncio della firma con Miami sconvolge l’NBA e il mondo del basket tutto. La decisione di James, che in Florida raggiunge Dwyane Wade e viaggia parallela a quella di Chris Bosh, altro free agent che decide di lasciare Toronto per firmare con gli Heat, porta alla formazione di quelli che vengono subito ribattezzati i ‘Big Three’. A dire il vero, non si tratta di una formulazione del tutto nuova, perché tre anni prima a Boston l’arrivo di Kevin Garnett e Ray Allen al fianco di Paul Pierce aveva generato reazioni simili, ma l’impatto mediatico e tecnico del trio James-Wade-Bosh cambia completamente l’orizzonte per Miami e anche per il resto della lega. Da lì in poi e per diversi anni saranno in molti a provare a replicare la stessa formula, dai Lakers agli Warriors passando per i Cavs, con alterne fortune. L’era dei ‘Big Three’, però, dopo un decennio di grande spolvero svanisce piuttosto repentinamente sotto i colpi incrociati delle nuove restrizioni previste nei rinnovi del contratto collettivo tra la NBA e i giocatori e della sempre più complicata, oltre che breve, convivenza tra talenti e ego enormi. Per vincere, negli ultimi anni, sembra tutto sommato sufficiente disporre di due stelle, come per i Lakers con l’eterno James e Anthony Davis o i Celtics di Jayson Tatum e Jaylen Brown, o anche di una sola attorniata da un cast di supporto di ottimo livello, come per Golden State con Steph Curry nel 2022 o Denver con Nikola Jokic la stagione successiva. A riportare in auge l’era dei ‘Big Three’ ci ha pensato ora Oklahoma City, anche se il trio formato da Shai Gilgeous-Alexander, Jalen Williams e Chet Holmgren non assomiglia affatto a quelli che l’hanno preceduto. COME SONO NATI I ‘BIG THREE’ DI OKC Ci sono determinate caratteristiche che i ‘Big Three’ dovevano avere per essere a tutti gli effetti considerati ‘Big Three’, o almeno le dovevano avere fin qui. La prima consiste nell’essere già tutti e tre considerati come All-Star o comunque stelle di primo livello al momento della loro unione, meglio se con qualche titolo vinto in bacheca. La seconda riguarda invece il modo in cui i ‘Big Three’ vengono assemblati, ovvero per mezzo di trade clamorose in cui la squadra che se li porta a casa si gioca quello che viene definito un ‘all-in’, compromettendo spesso buona parte del suo futuro alla ricerca della gloria istantanea. Di solito, poi, la formazione di un trio con le stimmate da ‘Big Three’ prevede la presenza di una stella già da tempo a roster, che agisce da sorta di catalizzatore per le altre come fatto da Pierce a Boston, da Wade a Miami e da Curry a Golden State, oltre che, con esiti decisamente meno felici, da Kobe Bryant a Los Angeles quando sulla sponda gialloviola della città arrivavano Steve Nash e Dwight Howard. La creazione dei ‘Big Three’, insomma, deve avvenire ‘in laboratorio’, attraverso operazioni di mercato e quasi mai in maniera organica. Anche perché, altra caratteristica pressoché obbligatoria per poter vantare l’etichetta di ‘Big Three’, l’unione di tre stelle deve giocoforza portare con sé l’obbligo di vincere subito, senza possibilità di poter attendere che l’intesa tra di loro cresca col tempo. Ecco perché, sotto pressoché tutti i punti di vista, i ‘Big Three’ di Oklahoma City non potrebbero fregiarsi dell’etichetta. Certo, all’origine del trio di stelle che ha riportato i Thunder alle Finals dopo 13 anni c’è una trade, ma si tratta di una trade di fatto subita e non scelta. Gilgeous-Alexander, così come la scelta che al Draft del 2022 ha consentito ai Thunder di scegliere Jalen Williams, arrivano dallo scambio che nell’estate del 2019 porta Paul George ai Clippers. Autentico capolavoro di mercato operato da Sam Presti, l’affare George è la base sui cui è stata costruita l’identità della squadra che ora si presenta come netta favorita all’ultimo atto della stagione. Sempre al Draft del 2022, infatti, con la seconda scelta Oklahoma City punta su Chet Holmgren, il cui percorso verso lo status di stella viene rallentato solo da un brutto infortunio che di fatto lo tiene fuori per tutto il suo anno da rookie. E così, senza eccessiva fretta o grande clamore mediatico, i Thunder assemblano il trio che potrebbe ora portarli al primo titolo nella storia della franchigia, o almeno al primo dal trasferimento da Seattle avvenuto nel 2008, e magari aprire a una sorta di reboot dell’era dei ‘Big Three’. Perché per quanto la profondità del roster a disposizione di coach Mark Daigneault sia stata una delle chiavi del successo della squadra, non c’è dubbio a proposito del fatto che buona parte dei destini di Oklahoma City siano passati, passino e continueranno a passare da quei tre. COME I ‘BIG THREE’ DI OKC SONO DIVENTATI ‘BIG THREE’ Tra i tre, come ovvio, quello ad avere meno bisogno di conferme era Gilgeous-Alexander, reduce da due stagioni giocate a livello da MVP, premio finalmente vinto poco più di una settimana fa. Qualche dubbio in più l’avevano invece lasciato le prestazioni di Williams e Holmgren agli scorsi playoff, dove erano emersi tutti i limiti dovuti alla poca esperienza in partite con quella pressione. Dubbi e limiti ricomparsi anche in questi playoff, dove dopo un primo turno molto facile contro Memphis Oklahoma City è stata messa a dura prova dalla serie con Denver. E proprio nella decisiva gara-7 contro i Nuggets, le tre stelle dei Thunder hanno compiuto il primo passo verso la consacrazione allo status di ‘Big Three’. Nella nettissima vittoria per 125-93, infatti, accanto ai 35 punti dell’immancabile Gilgeous-Alexander arrivavano i 24 con anche 7 assist di Williams e la doppia doppia da 13 punti e 11 rimbalzi di un Holmgren fondamentale nel contenere Nikola Jokic. Nel momento più importante della stagione, i Thunder si affidavano a loro e i tre rispondevano presente, così come in gara-4 delle finali della Western Conference, arrivata dopo la batosta di gara-3, persa con un pesantissimo -42, scarto negativo da record nella storia della franchigia ai playoff. Lì i ‘Big Three’ segnavano 95 dei 128 punti necessari per superare in volata Minnesota. Ne sono invece bastati, si fa per dire, solo 75 al trio per affondare definitivamente i Timberwolves in gara-5, dove Gilgeous-Alexander, Williams e Holmgren hanno tirato con un eccellente 29/52 complessivo dal campo. In questi playoff, d’altronde, con loro tre in campo Oklahoma City ha fatto registrare uno strepitoso plus/minus di +103. Meglio, con +107, ha fatto solo il terzetto di Indiana formato da Tyrese Haliburton, Pascal Siakam e Aaron Nesmith, dato però basato su un campione decisamente meno corposo con 270 minuti trascorsi insieme sul parquet contro i 315 dei ‘Big Three’ dei Thunder, che hanno anche un net rating migliore . Più delle cifre, peraltro piuttosto eloquenti nel dimostrare come quello di Oklahoma City si sia affermato come il miglior terzetto di tutta la NBA in questi playoff, a impressionare è però il salto di qualità fatto nella capacità dei tre di giocare insieme, di interagire all’interno del contesto di squadra e di adattarsi alle caratteristiche l’uno dell’altro. Williams, in questi playoff, è riuscito a gestire l’attacco in assenza di Gilgeous-Alexander, permettendogli di riposare più di quanto era accaduto durante la regular season. L’offensive rating di squadra, infatti, che durante la stagione regolare perdeva ben 11.3 punti con il futuro MVP seduto in panchina, nei playoff fin qui ne ha persi solo 3.8, dato che riflette per l’appunto prima di tutto la crescita come creatore di gioco e finalizzatore di Williams, capace ora anche di togliere pressione a Gilgeous-Alexander e richiamare su di sé le attenzioni della difesa avversaria quando i due, come succede sempre nei momenti decisivi delle singole partite, sono in campo insieme. Holmgren, invece, ha dimostrato una maturità tecnica e tattica imprevedibile alla vigilia dei playoff, che gli ha consentito di adattarsi alla conformazione a due lunghi resasi necessaria contro Denver così come ai molti minuti trascorsi sul parquet da unico lungo di ruolo. Già uno dei migliori difensori di tutta la lega, rimasto fuori dai due quintetti All-Defensive solo per via delle tante partite saltate a causa di infortuni e problemi fisici, l’ex Gonzaga ha saputo dare il meglio di sé contro clienti non proprio semplici e diversissimi tra loro per caratteristiche come Jokic, Aaron Gordon, Rudy Gobert e Julius Randle, tenendo al contempo egregiamente anche sui cambi difensivi contro gli esterni avversari. Tra i lunghi con minutaggio importante, poco meno di 30 minuti a partita nel suo caso, nessuno ha fatto meglio di lui quanto a net rating . Vederli insieme, Gilgeous-Alexander, Williams e Holmgren, e pensare che in fondo giocano con costanza uno al fianco dell’altro da sole due stagioni e che nell’ultima regular season erano riusciti a farlo solo per 26 partite, fa davvero impressione. Anche perché il loro percorso di crescita, a livello individuale e ancora di più come terzetto, sembra ben lontano dall’aver raggiunto il suo apice. E il resto della NBA, a cominciare da chi li dovrà affrontare alle Finals tra una settimana, pare destinato a dover presto o tardi fare i conti con loro.

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Dario Costa