Riflessioni non-binarie

Qualche giorno fa, il presidente di World Athletics Sebastian Coe ha commentato per BBC una recente decisione della Corte Suprema del Regno Unito. Le fonti giornalistiche hanno evidenziato che dal giudizio statuisce il seguente principio: la definizione legale della parola 'donna' è basata sul sesso biologico, e non sul concetto di 'sesso certificato'. Il 68enne ex fuoriclasse dell’atletica, da sempre impegnato a "proteggere l’integrità dello sport femminile", ha parlato di una decisione "di buon senso", che porterà chiarezza rispetto all’accesso alle competizioni femminili, in quanto "rimuove l’incertezza legale e le interpretazioni". La prima considerazione è di carattere metodologico: la Corte Suprema britannica ha compiuto un percorso specifico, legato al suo ruolo di interprete delle leggi. La sua decisione consta di 87 pagine e 268 paragrafi. Uno di questi, il 265esimo, riconosce che si tratta di un giudizio ponderoso e offre un summary dei 18 motivi sui quali si basa la decisione . Il primo dei 268 paragrafi citati recita che "il giudizio riguarda la richiesta di corretta interpretazione dell’Equality Act 2010, teso a fornire protezione legislativa alle persone potenzialmente vittima di discriminazione". Sempre in premessa, si ricorda che "da una parte le donne hanno storicamente sofferto di discriminazione nella nostra società" tanto che dal 1975 sono protette da norme specifiche. Dall’altra, si sottolinea che "la comunità trans è storicamente e attualmente una comunità vulnerabile, che il Parlamento ha cercato recentemente di proteggere". Insomma, par di capire, è un affare delicato. La Corte Suprema è stata adita da For Women Scotland Ltd, per stabilire il senso della parola woman in quella precisa norma di legge. Tanto è così che la Corte, al secondo paragrafo, sostiene che non è il suo ruolo esprimersi su argomenti di pubblico dominio come 'genere' e 'sesso' al di fuori del perimetro di quella norma. A chiedere questa interpretazione autentica è stato un gruppo di donne scozzesi che "lavora per proteggere e rafforzare i diritti delle donne e dei bambini" con l’obiettivo di "proteggere il 'sesso' in campo legale e politico, aiutare le persone a esprimersi e promuovere una discussione basata sui fatti". Le attiviste di For Women Scotland hanno stappato bottiglie di champagne davanti alla sede della Corte Suprema dopo l’annuncio del verdetto, che a loro avviso permetterà di ripristinare quelli che a loro avviso sono i corretti spazi 'single sex' nei bagni dei locali pubblici, negli ospedali, nelle carceri . Nonostante i molti passaggi nei quali la Corte afferma di comprendere le ragioni dei transgender, attivisti della comunità trans hanno definito la decisione "un insulto", nella misura in cui esclude, invece di includere, tutti coloro che rientrano nella vasta categoria di 'non-binario'. Il tema è delicato e difficile. Soprattutto, non è sportivo. Nelle 216 pagine dell’Equality Act 2010, la parola woman ricorre 58 volte e la parola sport esattamente zero. Nelle 87 della sentenza, ci sono 217 woman e 11 sport . Immagino quindi che i giudici non abbiano deliberato con l’obiettivo primario di stabilire se Valentina Petrillo possa o non possa partecipare a una competizione femminile di alto livello. Certo, l’impatto del giudizio riguarda anche il mondo sportivo, ma non solo esso. Eppure, sembra che il primo obiettivo dei giudici fosse quello di proteggere le competizioni femminili, messe sotto attacco da orde di transgender . Ciò detto, veniamo a Coe. Dal 2023 la Federazione mondiale dell’atletica leggera ha introdotto un divieto assoluto di partecipazione alle proprie competizioni per le donne transgender: per poter gareggiare in quelle competizioni "bisogna essere biologicamente donne". Se vi fidate, solo sull’avverbio 'biologicamente' si potrebbero riempire diecimila pagine, peraltro senza venirne a capo. Naturalmente questo divieto non impedisce ai transgender di fare sport tout court. Questo gruppo può però essere escluso da competizioni di alto livello. Se l’articolata vicenda non avesse enormi implicazioni mediatico-politiche, la partecipazione delle atlete che si riconoscono nel genere femminile alle competizioni d’élite per donne avrebbe avuto ben poca eco. Solo che quelle implicazioni ci sono, e forti. JK Rowling, che ha finanziato l’iniziativa legale di For Women Scotland, ha postato una sua foto con sigaro e drink, nella quale celebra la statuizione della Corte Suprema. Intenzionalmente non sono andato a scorrere i commenti online, ma sono presuntivamente certo che il mix di esaltazione e di insulti giustifichi l’uso dell’espressione 'dibattito polarizzato'. Se si parla di polarizzazione, impossibile che non c’entri Donald Trump, già attivo quest’estate sul caso-Khelif . Un’attivista della comunità trans ha infatti parlato di una decisione 'trumpiana', aggettivo che i giudici inglesi respingerebbero. Il nervo è però scoperto. Ricordo a me stesso che il Presidente degli USA, lo scorso febbraio, "per proteggere l’opportunità di donne e ragazze di competere in un ambiente sportivo equo e sicuro" ha emanato un atto di indirizzo sintetizzato dal discutibile concetto "Teniamo gli uomini fuori dallo sport femminile". In esso si ordina di non sostenere organizzazioni sportive «nelle quali le categorie sono basate sull’identità o sulla percentuale di testosterone e non sul sesso». La foto della firma dell’executive order in mezzo a bambine e giovinette non mi lascia affatto indifferente. Mi chiedo però se non siamo noi i primi, banalizzando e polarizzando le questioni, a concorrere alla propaganda. Parafrasando l’immenso Guzzanti, non mi preoccupa il totalitarismo in sé, ma il totalitarismo in me. Nella sua dimensione pubblica, ironia della sorte, la discussione vive solo di termini binari: uomo-donna, sesso-genere, partecipazione-esclusione. Il motivo per il quale non sposo questa modalità è indagato in maniera eccellente da un recente libro di Luca Grion, confini. Professore di Filosofia morale e studioso di etica dello sport, Grion resiste splendidamente alle tentazioni semplicistiche, qualunquistiche e propagandistiche. Parte dalle definizioni e giunge a definire i termini della complessa questione, lasciando dietro di sé persone più consapevoli. Esattamente il contrario, quindi, di coloro che partono dalla soluzione e subordinano il loro “ragionamento” alla propria convinzione. Un elenco che non comprende solo il neo-eletto presidente degli USA. Certo, il modo di procedere di Grion è sempre più desueto, ma proprio per questo dobbiamo cercare di preservarlo in tutte le maniere. Rimandandovi alla sua trattazione e agli ottimi lavori di Silvia Camporesi per gli aspetti specifici, chiudo con un summary di ciò che la vicenda mi suggerisce. La questione risiede nel trovare un equilibrio tra due valori concorrenti: l’inclusione da una parte, l’equilibrio competitivo dall’altra. La decisione della Corte Suprema, nello spazio dedicato allo sport, afferma che per escludere donne transgender da una competizione devono esserci comprovate esigenze di equità e di sicurezza. Che queste ultime sussistano, mi pare pacifico, devono dimostrarlo gli organizzatori delle predette competizioni, e la loro decisione sarà comunque appellabile nelle sedi sportive e giudiziarie. Questo dilemma non può essere risolto da giudici e politici, che agiscono per preservare beni che vanno al di là della comunità sportiva. Visto che lo sport si picca di essere così importante e strepita spesso per difendere la propria autonomia farà il piacere di prendersi la responsabilità di stabilire cosa fare. Senza andare a ruota di ermellini e parlamentari vari. Nel cercare il difficilissimo equilibrio tra inclusione ed equità, la bussola di riferimento sta nelle definizioni. Parole come 'genere', 'vantaggio', 'interesse' vanno declinate nel contesto specifico della competizione. Restando ancorati a parametri scientifici ma avendo soprattutto cura di stabilire a monte il principio generale che si vuole difendere. Il vulnus principale è quello di pretendere di trovare una soluzione erga omnes. La finale olimpica dei 100 metri è esclusiva per definizione, perché vi accedono solo otto corridori. Ed è proprio questa esclusività a darle senso. Allo stesso tempo, che essa sia incerta nell’esito prima che lo starter spari il suo colpo di pistola ha un valore commerciale ed economico elevato, che va rispettato. All’estremo opposto sta la prima gara alla quale bambine e bambini partecipano. Gara che a mio avviso dovrebbe prescindere totalmente dal concetto di categoria, a partire da quelle basate sul sesso o sul genere. Più si scende dalla cima alla base della piramide, più il peso specifico dell’inclusione deve crescere. L’assenza totale e desolante della cura per il valore pedagogico dello sport comporta invece un’attenzione morbosa ed esclusiva per le competizioni di alto livello, che rappresentano l’unico immaginario dello sportivo. Dal punto precedente consegue che ci si accapiglia solo per decidere se Iman Khelif può/deve salire sul ring. E lo si fa solo sulla base di appartenenze para-ideologiche. Provocatoriamente, la decisione su Khelif mi interessa zero. Mi interesserebbe, invece, capire in base a cosa si privilegia un aspetto della questione e se ne sacrifica un altro. Cioè quello che gli enti che governano lo sport non fanno, nascondendosi dietro formalismi e/o dietro apparenti e reboanti affermazioni di “principio”. Non si tratta di essere 'buoni' con le donne, la comunità LBGTQIA+, le persone affette da DSD, quelle con la Sindrome dell’Ovaio Policistico e le molte altre categorie mediche, sociali e culturali che stanno evolvendosi davanti ai nostri occhi. A competere sono sempre e solo persone, sulla cui eguaglianza non possono e non devono sussistere dubbi. Come raggrupparle per farle gareggiare in maniera equa senza ledere i diritti loro e degli altri è un affare serio e tremendamente difficile. Con il 'buon senso' evocato da Sebastian Coe, quindi, si possono fare tante belle cose, ma non questa. Meglio rimboccarsi le maniche e ripartire da zero, con il massimo rispetto per le decisioni delle Alte Corti.

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Flavio Tranquillo