Una squadra senza nome né simbolo, ma con due uomini veri

Washington
Massimo Marianella

Massimo Marianella

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L’incredibile storia della squadra di football americano un tempo conosciuta col nome dei Redskins. Ha perso quel nome e quel logo a seguito delle proteste dell’opinione pubblica e sotto la pressione degli sponsor dopo l’omicidio di George Floyd; gioca con un allenatore malato di cancro che ha fatto chemio anche durante una partita e con un QB che è vivo per miracolo

Si festeggia l’ultimo giovedì di novembre ed è una delle feste più sentite negli Stati Uniti. E’ il Thanksgiving. La Festa del Ringraziamento che ha origine dalla metà del 1600 e per la quale, a parte i tacchini, sono tutti felici. Si riuniscono le famiglie, turkey giganteschi troneggiano sulle tavole imbandite e il football NFL la fa da padrone con 2 o 3 partite mirate in calendario. Quest’anno, in questo turno, si è celebrata anche la storia sportiva più straordinaria del lustro per determinazione, perseveranza e, alla fine, successo. Un film. Una favola a lieto fine che ha reso il Thanksgiving ancora più bello ed agonisticamente romantico.

La campana di Ron Rivera

All’At&T Stadium di Arlington Texas per affrontare i disastrati Cowboys è scesa in campo la squadra di Washington. Un team senza nome, senza un simbolo e senza una mascotte perché ai Redskins gli ha soffiati via in un colpo solo il tornado del volersi dimostrare “politically correct” del post omicidio di George Floyd. Sarebbe meglio FARE piuttosto che limitarsi a far vedere, ma questa è l’America. Si chiamano oggi Washington Football Team, ma se non ce l’hanno nel logo i simboli veri ce li hanno nel roster. Quelli sì esempi da seguire. Un allenatore Ron Rivera, arrivato dai Carolina Panthars, che sta curando un tumore alla pelle in panchina. Fatica a parlare, ha fatto una volta la chemio all’intervallo, ma continua ad allenare.

Ron Rivera al Inova Schar Cancer Institute, suona la campana che celebra la fine percorso di cura del suo tumore

La seconda vita di Alex Smith

I suoi giochi offensivi poi li porta finalmente in campo Alex Smith. Quarterback che fu prima scelta assoluta dei San Francisco 49ers nel Draft del 2005 (quello che comprendeva anche Aaron Rodgers) tre volte chiamato al Pro Bowl e dal 2013 per 5 stagioni a Kansas City per cambiare dimensione ai Chiefs e permettere poi a quel fenomeno di Patrick Mahomes di trionfare al Super Bowl di Miami lo scorso anno. Per lasciar spazio al numero 15 è stato spedito ai Redskins, ma a Washington l’avventura per Alex è stata di ben altra natura. Il 18 novembre 2018 i Redskins affrontano gli Houston Texans. Smith subisce un sack da Kareem Jackson (oggi ai Denver Broncos) e JJ Watt e si frattura tibia e perone. Un incidente di gioco. Brutto come può accadere nella NFL, ma nessuno poteva pensare sfiorasse la tragedia. In pochissimo tempo si è passati, in una lugubre escalation, dalla domanda su quando tornerà in campo, al ‘giocherà mai più?’. Pochi giorni e, dopo un’infezione batterica, la situazione precipita e si trasforma nella preghiera iniziale della moglie ‘vi prego non amputategli la gamba’ a, di li a qualche giorno, ‘fate quello che potete per salvargli la vita’. Un dramma. Per giocare a football ci vogliono ovviamente fisico e talento, ma in troppi non capiscono che ci vuole molto molto di più. In casi particolari, forza d’animo, amore per il gioco e orgoglio. Questa storia va addirittura oltre.

Un infortunio simile lo subì solo Joe Theismann, con macabra similitudine anche lui quando era QB dei Washington Redskins, in un Monday night contro i New York Giants nel 1985. Theismann, che aveva vinto da titolare il Super Bowl XVII nel gennaio 1983, in “campo” dopo le varie operazioni ci tornò solo da telecronista.  Alex Smith quest’anno è rientrato invece da protagonista con la sua maglia numero 11 in dosso e il casco in testa. Dopo 17 operazioni, infinite ore di riabilitazione, qualche preghiera e 742 giorni.

Il Thanksgiving game ne ha esaltato la grandezza sotto tutti i punti di vista. Il tabellino alla fine recita 19 su 26 con 149 yards and 1 TD. Come statistiche aveva fatto meglio due settimane prima quando aveva stabilito i suoi massimi in carriera con 38 su 55 per 390 yards e in quella successiva portando la sua squadra alla vittoria 20-9 sui Cincinnati Bengals, ma aver vinto una partita così in diretta nazionale ha commosso il Paese. Una squadra senza nome, con un Head Coach che lotta sulla sideline contro una malattia maledetta quanto contro gli avversari e guidati da un QB che non ha trovato la parola arrendersi nel suo vocabolario.

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