Agassi, Sampras e i magnifici anni '90 del tennis

Tennis

Matteo Renzoni

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E' stato un decennio magico quello degli anni '90 per il tennis: dalla rivalità tutta americana tra Agassi e Sampras al dominio degli spagnoli sulla terra battuta, fino al successo sfiorato dall'Italia in Coppa Davis

Sampras e Agassi che bloccano il traffico, piantano una rete, e si prendono a pallate in mezzo a New York. Scena mitica tratta da uno spot (quello del baffo) decisamente noto, riesumarla oggi – un bel pezzo più avanti - aiuta a spiegare quello che è successo al tennis nel decennio dei jeans e delle pance scoperte. Pete e Andre, con la forza esplosiva dell’autobus che nella pubblicità alla fine manda tutti a casa, hanno guidato una schiera di gente capace di mettere in soffitta Borg e McEnroe. Non esattamente due personaggi qualsiasi. In sintesi estrema, l’ultimo spicchio del secolo scorso è stato il trionfo della rivalità tra l’americano “basic” con la Grecia nel sangue e l’americano fluo di origini armene. Uno pensava solo al tennis, l’altro lo odiava salvo nel tempo riabilitarlo. Pete era servizio-volée e passanti in corsa, Andre era risposta micidiale e flipper da fondocampo. Sampras, per avere una proporzione, è stato in quel periodo N1 sei anni di fila. Agassi, per dare una misura, ha vinto i quattro Slam, il Master di fine anno, la Coppa Davis e la medaglia d’oro olimpica.

Non solo loro, però. Il decennio è stato “americanissimo”: una classifica estratta a caso dimostra che nel luglio 1991 dieci dei primi ventidue battevano bandiera Usa. Ma i Nineties hanno scaldato il cuore, e allora se ne può parlare lasciando da parte le statistiche. Meglio infilare, come palline di una collana, una dopo l’altra le storie ruggenti dei protagonisti di quella stagione. Da non dimenticare, certamente, gli ultimi colpi – anche vincenti – di super campioni come Lendl, Edberg e Becker.

Insieme alle passerelle lunghe o lunghissime di McEnroe e Connors. Gente capace di attraversare anche l’aggiornamento dei materiali, dal famoso legno agli strumenti

via via più moderni. Con annesse le evidenti conseguenze di natura tecnica. Bravi ad approfittarne gli spagnoli, capaci di arrotare la palla come nessuno aveva fatto fino a quel momento. Al punto di dominare le scene su terra battuta. Da Bruguera a Moya, passando per Berasategui e Corretja. Tra impugnature esasperate e top-spin

saltellanti. Una serie di validissimi esempi sui quali negli anni a venire è stato forgiato il talento di Nadal. Gente che minimo ha fatto semifinale a Parigi senza mettere troppo il becco a Wimbledon, roba di Sampras prima del passaggio di proprietà firmato Federer. Per la verità nei Novanta da quelle parti ha brillato anche qualche nome meno nobile: ricordate la finale ’96 Krajicek-Washington? Nel caso la memoria fallisse, suggerisco l’immagine della bionda “petto” all’aria che quel giorno pensò bene di fare una passeggiata a piedi nudi sull’erba.

Qualche soddisfazione, ma mai quella definitiva, da quelle parti se l’è tolta Tim Henman. Gli inglesi gli chiedevano di riportare il trofeo a casa, il signorino tutto servizio e volée gli ha regalato al massimo la semifinale. Niente trofeo con l’ananas in testa, esattamente come Lendl nel decennio precedente. Rimpianti sportivi che dalla testa dei giocatori non vanno via, mai. A rimanere inciso è anche il cuore disegnato da Kuerten sul campo più nobile di Parigi, era il ’97. Cose inedite: il cuore, sì, ma soprattutto un brasiliano campione al Roland Garros. A divertirsi e divertire, negli anni del walkman, sono stati anche giocatori indimenticabili come Courier, Chang, Ivanisevic, Kafelnikov, Pioline. Chi più chi meno, ognuno scelga quello che preferisce. Magari mettendoci dentro una spruzzata d’azzurro, perché no la finale Davis del ’98 contro la Svezia persa (soprattutto) per colpa della spalla di Gaudenzi. Quel gruppo

capitanato da Bertolucci sarebbe passato alla storia al pari degli eroi del settantasei. Su tutte, però, c’è un’immagine tratta dai Novanta che al tempo del coronavirus va spolverata e messa sotto vetro: c’è Muster che si allena con la gamba ingessata, scomodamente seduto su una panca speciale. Resilienza vera. La macchina di un ubriaco lo centra e gli sfascia il ginocchio, lui dopo l’intervento non perde tempo. Carriera a rischio, dicono. L’austriaco dimostra il contrario e dodici mesi dopo, proprio nel 1990, prima vince Roma poi entra nei migliori quattro di Parigi. Messaggio chiaro: mai darsi per vinti. C’è sempre un modo per rialzarsi in piedi. Sul serio, mica per spot.

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Andrea Gaudenzi nella finale di Coppa Davis del 1998 - ©LaPresse