Quando Bublik gioca un torneo se ne accorgono tutti: è la sua insostenibile leggerezza

Due frasi per descrivere il personaggio. La prima è una scritta in italiano, per essere poco comprensibile, e tatuata sul bicipite destro: “A volte devi combattere con Dio”. La seconda è la biografia su Instagram: “Qualche volta colpisco una pallina gialla”. Tennista intermittente, ribelle, talento dedito all’autosabotaggio, l’anima delle feste, di tante feste, tutte quelle a cui rinunciano i campioni per diventare campioni. Quando Alexander Bublik partecipa a un torneo se ne accorgono tutti. Di solito al suo nome è associata un’alzata di spalle, come a dire: “peccato”. Ogni generazione ha le sue mine vaganti, i bad boy del potrei ma non voglio, magnifici perdenti che in giornata sono capaci di regalare i migliori highlights della giornata. Russo ma di passaporto kazako per vil denaro, 27 anni, numero 62 del ranking, quattro titoli Atp conquistati in carriera, è il giocatore che ribalta tutti gli stereotipi. Nell’epoca dell’ossessione per le vittorie, i titoli, la posizione nel ranking, lui preferisce vivere il tour con filosofia . In campo Alexander Bublik alterna prime a 221 chilometri orari e servizi dal basso. E poi tweener, drop shot, una manualità sotto rete che ricorda quella degli antichi, dritti pesanti come macigni, tutto ciò che l’avversario non si aspetta, con un sorriso da bambino dispettoso sempre pronto a disegnargli il volto. È concreto nella sostanza, ma visto dal di fuori, il suo tennis sembra leggerissimo. A Parigi ha sconfitto due top 10 in 4 partite: Alex de Minaur in rimonta al quinto set e Jack Draper, numero cinque del mondo, sempre in rimonta, in quattro set. Dopo aver sconfitto l’australiano il numero 62 del ranking ha ammesso che, sotto di due set, ha cominciato a pensare al suo volo di ritorno per Monte-Carlo. Nessun dispiacere, al massimo un’altra alzata di spalle, un peccato, l’ennesimo. Il match point con cui ha chiuso la partita è emblematico del personaggio: tweener senza una logica, rovescio lungolinea vincente e poi le mani che chiedono al pubblico un applauso. È irriverente, misterioso, il suo tennis irresistibile. Alexander Bublik è uno che mette le mani avanti, da sempre. Forse per paura di deludere le aspettative degli altri, forse perché in fondo è più semplice non provarci e non riuscirci piuttosto che provarci e non riuscirci lo stesso, forse davvero per poco interesse alla questione, la ricompensa, per cui i suoi colleghi trascorrono quattro ore al giorno, tutti i giorni, dentro al campo. A proposito della terra rossa un giorno ha dettto: “C’è poco da dire, la odio”. Ed effettivamente tutte quelle rincorse, gli scambi prolungati, l’ostinazione alla Nadal, è quanto di più lontano ci sia dal tennis alla Bublik. A Parigi il suo torneo si sarebbe potuto chiudere molto più dignitosamente che altrove, lunedì 2 giugno, durante gli ottavi di finale contro Jack Draper, uno dei giocatori più in forma della stagione. Sotto di un set, il numero 62 del ranking avrà ricominciato a pensare alle questioni logistiche, al suo ritorno a casa, a un altro torneo da cui andarsene perdente. Invece, sul Centrale dello Slam che tollera meno, accade un’altra storia. Accade che Bublik, il ragazzo che vive di arte e gioca per lo show, scopra la concretezza, la concentrazione, scopra cosa si prova a mettere il cento per cento della propria intelligenza e delle proprie gambe, cosa si prova a provarci fino alla fine. Contro Draper Bublik non ha mai servito dal basso, sono bastate le smorzate, trentasette in totale, per mandare fuori di testa l’avversario, per fargli dire alla fine di tutto: “Il match è stato completamente fuori dal mio controllo. Non avevo la minima idea di cosa fare”. Soprattutto: non aveva la minima idea di che cosa si sarebbe potuto inventare il suo avversario. Non i quindici minuti di tennis champagne bellissimo e irrilevante, ma due ore e trentaquattro minuti in cui Bublik, con la sua partecipazione, ha provato sulla propria pelle cosa è capace di fare dentro un campo da tennis quando la giornata è quella giusta e lui si impegna a non rovinare ogni cosa. Dopo la vittoria, si è sdraiato sulla “odiosa” terra rossa, stava per piangere ma è riuscito a trattenersi, ha detto che probabilmente stava vivendo una delle migliori giornate della sua vita, ha provato a imitare i suoi colleghi che dicono che bisogna pensare allo step successivo e forse questa volta, per un attimo ci ha davvero creduto, si è davvero immedesimato nella vita che vivono i tennisti, nella vita che lui ha scelto di rinnegare. Senza rimpianti, senza da mancate vittorie da recriminare, senza rimorsi per tutti quei party al posto degli allenamenti. Nei quarti di finale affronterà Jannik Sinner. Non potrebbero essere più distanti come mentalità, come attitudine, come tennis. Uno è il numero uno del mondo, l’altro è il numero 62. Forse sono felici entrambi, ognuno al proprio posto del ranking.

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