Nessuno è meno fragile di Jannik Sinner: perché i suoi ritiri sono un falso problema

Ci risiamo, ogni volta la stessa storia, con cadenza più o meno bimestrale. La fragilità, ovvero la presunta fragilità di Jannik Sinner. Ogni volta che si ritira da un torneo o accusa un problema fisico, riparte la litania. È fragile, si allena troppo, anzi troppo poco. Mangia abbastanza, ha un fisico di vetro, è un professionista moderno che conosce il proprio corpo meglio di chi lo osserva dal divano, però Marco Panichi era meglio. Anzi Umberto Ferrara. Ci vorrebbero più banane, cosa ci ha insegnato Michelino Chang. Calma. I crampi di Shanghai hanno riattizzato il fuoco del processo mediatico? E chi se ne frega del processo mediatico . Perché il ragazzo di San Candido non deve ogni volta rendere conto del proprio operato. Tantomeno dimostrare qualcosa in più degli altri, come se il dolore di un ginocchio o una tensione muscolare fossero indizi automatici di debolezza morale, non eventi normali nello sport di altissimo livello. Giusto per non far confronti, Novak Djokovic a 24 anni si era già ritirato undici volte in carriera. Poi Nole scoprì la sua intolleranza al glutine e ciao. Oggi viene giustamente considerato un monumento alla longevità, alla cura maniacale del dettaglio, all’intelligenza fisica. Eppure, prima che il serbo diventasse il ‘cyborg’ del tennis moderno, era accusato esattamente delle stesse cose: troppo fragile, troppo ‘soft’, troppo attento al proprio benessere per essere un killer. Sinner è a quota 7 ritiri, per dire. Ma fare confronti non ha senso. La verità è che l’evoluzione di un atleta è un percorso lungo e imperfetto. Djokovic imparò col tempo a conoscere il suo corpo, gestire i limiti, trasformare la debolezza in carburante. Sinner sta facendo lo stesso, solo che oggi tutto è più amplificato: social, telecamere, meme, titoli a sensazione. Ogni ritiro diventa una diagnosi collettiva, ogni massaggio un allarme. Noi italians siamo apprensivi, mettiamola così. Dopodiché, il paragone con Alcaraz, che in campo sembra una forza della natura. Il fisico esplosivo dello spagnolo fa impressione, ma anche lui — a guardare bene — ha avuto infortuni muscolari, stiramenti, pause, alti e bassi. Ma nel suo caso, la narrativa resta quella dell’uragano: se cade, è perché ha corso troppo veloce. Se Sinner si ferma, è perché è “troppo fragile”. E se fosse addirittura una questione di percezione culturale? Jannik non urla, non si lamenta, non inventa alibi. Quando si ritira, lo fa con sobrietà e rispetto. E questo garbo, paradossalmente, lo rende più esposto: nel vuoto delle parole, gli altri parlano per lui. In realtà, la ‘fragilità’ di Sinner è solo la faccia pubblica di una cosa molto più complessa: la ricerca costante dell’equilibrio. Un corpo che cresce, si modella, si adatta a una vita fatta di voli intercontinentali, superfici diverse, fusi orari e pressioni enormi. Riguarda tutti, certo. Ma un numero uno è più sollecitato di tutti. È l’apprendistato naturale di un campione che ha già bruciato le tappe e che adesso, forse per la prima volta, deve imparare a rallentare un po’, anche se questo comporterà qualche rinuncia dolorosa. Prendersi cura di sé non è ipocondria, anzi. È la forma più evoluta di professionalità. Il tennis è diventato un laboratorio di fisiologia applicata, e chi ignora i segnali del proprio corpo finisce presto ai margini. Djokovic ha costruito la sua leggenda proprio partendo da lì. Sinner non è fragile: è giovane, umano, ambizioso. Ogni crampo è un messaggio, non un fallimento. Ogni stop, una tappa di apprendimento. Se davvero la fragilità è la capacità di ascoltarsi, allora sì: Sinner è fragile. Ma proprio per questo diventerà ancora più forte.

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Nessuno è meno fragile di Jannik Sinner: perché i suoi ritiri sono un falso problema

Stefano Meloccaro