D’Arcangelo: "Amare Djokovic è un atto rivoluzionario"

“Doveva arrivare Giancarlo Liviano d'Arcangelo a farmi amare un tennista che odio”. Bastano queste poche parole di Sandro Veronesi per intuire cosa si può trovare nel libro Djokovic - L’uomo che ha sfidato gli dèi di Giancarlo Liviano D’Arcangelo edito da 66thand2nd. Nole campione, Nole da record con i suoi 24 slam, alla ricerca costante di spostare il proprio limite, il proprio orizzonte. Nonostante i numeri e le vittorie, però, la stragrande maggioranza dei tifosi non ha mai amato i suoi atteggiamenti da ‘villain’, il suo tennis mentale, camaleontico, in grado di far risaltare i punti deboli degli avversari. Giancarlo Liviano D’Arcangelo ribalta questa verità e racconta Djoković da una prospettiva totalmente inedita, con la forza emotiva di un memoir, la capacità di coinvolgere di un romanzo e l’accuratezza di una biografia. E ci spiega perché amare 'The Djoker' è un atto rivoluzionario. L’atto di chi riesce a continuare a credere nella capacità tutta umana di andare oltre sé stessi per costruire il proprio destino. Quale prospettiva ha scelto per raccontare Djokovic nel suo romanzo? "Forza mentale, conoscenza dei propri limiti e superamento delle difficoltà, questi sono gli elementi più potenti della personalità di Djokovic che in maniera naturale mi hanno guidato nel racconto. Mi sono chiesto: cosa conta di più, il talento o l’abnegazione? Il lavoro certosino o le doti innate? Non fraintendiamoci, Djokovic ha un talento incredibile ma rispetto ai suoi rivali Federer e Nadal ha dovuto lavorare di più per migliorarsi sul piano tecnico e fisico. Il tennis è il gioco dell’eterno presente, per vincere ad altissimo livello bisogna essere sempre connessi con sé stessi e alla verità dell’attimo in corso, bisogna scordare l’ultimo errore e non pensare mai di aver già vinto, anche quando si è in vantaggio. E Nole è stato il migliore su questo, anche grazie alla sua preparazione giovanile, alla capacità di discostarsi dai suoi modelli, come Sampras, e trovare un gioco realmente efficace per le sue caratteristiche. E poi grazie alla sua attitudine a vivere questo magnifico sport con quell’approccio olistico che deve alla sua primissima allenatrice, Jelena Genčić, grazie alla quale anche musica classica, letteratura e cura maniacale del corpo hanno contribuito a renderlo vincente e longevo". Djokovic è un campione che divide, o si odia o si ama, perché? "Perché non è mai stato calcolatore nei suoi atteggiamenti extra-campo, è sempre stato molto autentico. Dal mio punto di vista è tra i pochi sportivi di livello mondiale a mostrare senza inibizioni i suoi lati umani più profondi, anche quelli controversi. E quando si sceglie questa strada si finisce – in un’epoca come l’attuale propensa alle forti polarizzazioni – per suscitare sentimenti molto contrastanti. Nelle ultime settimane, guardando i commenti social che hanno accompagnato la sua sconfitta a Indian Wells, e le sue vittorie prima della finale a Miami, mi ha colpito molto questo aspetto, quanta adorazione e quanta asperità suscita ancora oggi". Prima Nadal e Federer, ora Sinner e Alcaraz, Djokovic è sempre il terzo incomodo… "Verissimo! E di certo rompere quel dualismo perfetto tra Federer, simbolo apollineo della grazia sublime e dello stile, e Nadal, simbolo dionisiaco del furore agonistico e della potenza brutale, ha contribuito moltissimo a renderlo inviso alla maggioranza del pubblico mondiale. Le due divinità erano perfette, rivali in campo e amici fuori, poi è arrivato il 'villain' da un piccolo paese dell’Est e anno dopo anno ha iniziato a batterli spesso, quasi sempre. Oggi con Sinner e Alcaraz è un po’ diverso ma non troppo. Alcaraz mi sembra soffra il carisma di Nole ancora moltissimo, Sinner ha rotto il ghiaccio con quei due match point storici annullati in Coppa Davis e ormai sembra aver preso il suo posto. Vediamo che succede negli Slam estivi…". Nole ha sempre raccontato che la prima partita da vincere è quella che lui gioca tra un orecchio e l’altro, ovvero nella sua testa. Scrivendo questo libro Le è sembrato di entrare un po’ nella sua testa? "È stato di certo ciò che ho provato a fare, anche perché speravo che capendo meglio i passaggi mentali di Djokovic avrei potuto migliorare il mio tennis da amatore, e in parte è successo: da adoratore e imitatore di giocatori come Edberg e Leconte mi sono trasformato in un lottatore sempre concentrato, osticissimo. Battute a parte, aveva ragione Brad Gilbert quando spiegò ad Agassi – lo racconta proprio Andre in Open – che il grande errore dell’americano era di voler fare vedere di essere il migliore di tutti in ogni partita, mentre era sufficiente essere migliori dell’avversario dall’altra parte della rete. Nole è un maestro di questa interpretazione, un luminare della gestione delle risorse, nessuno nella storia del tennis è stato mai così bravo a trasformare ogni match in un universo mentale". In alcune situazioni ha raccontato di cambiare i cori che sentiva dagli spalti per i suoi avversari in cori a suo favore. Quanto la sua forza mentale gli ha permesso di arrivare ai suoi 24 Slam? "La forza mentale è stato senza dubbio il fattore decisivo della sua longevità, anche più della sua incredibile capacità di preservare il benessere corporeo. Dalla grande scoperta dell’intolleranza al glutine a oggi – con qualche intervallo dovuto agli infortuni – la capacità di Nole di non invecchiare è stata incredibile, ma anche quell’aspetto è governato soprattutto dalla mente. La capacità di darsi stimoli anche dopo un numero enorme di vittorie, la voglia di competere con i più giovani anno dopo anno e stare sulla breccia per vent’anni con uno o due brevi momenti negativi… se ci si ferma un attimo a pensare sono imprese straordinarie, uniche". Qual è la partita che più racconta Nole? "Per me sono due: la vittoria a Wimbledon nel 2019, 13-12 al quinto set in finale con King Roger Federer, in una giornata in cui tutto il mondo tifava per l’Apollo svizzero, tranne in pochissimi tra cui io. Federer doveva vincere quel match, era tutto pronto, doveva essere il suo nono titolo ai Championship e il modo perfetto per chiudere una carriera leggendaria, eppure Djokovic gli rubò la scena, per giunta annullando i soliti due match point. Più villain di così… e poi la finale delle ultime Olimpiadi a Parigi. Era l’unico trofeo che gli mancava, ha giocato sotto una pressione incredibile perché sentiva addosso la responsabilità verso una nazione intera. Eppure ha vinto a trentasette anni contro un giocatore fantastico come Alcaraz giocando una partita perfetta, senza una sola sbavatura. Il capolavoro della sua forza mentale". È colui che ha vinto più di tutti, ma non è mai stato il più amato. Perché? "Credo che non aver avuto il pubblico dalla sua nella maggior parte delle occasioni sia un grande dispiacere per Djokovic, un aspetto cruciale della sua carriera. È splendido l’aneddoto che lui stesso racconta su quando trasformava nella sua mente il grido d’incitamento del pubblico Roger! Roger! in Nole! Nole!, così come fu una prova di umanità incredibile per lui scoppiare a piangere quando il pubblico si mise a incitarlo a New York quando era sul punto di perdere il Grande Slam contro Medvedev. Un po’ ha inciso, come abbiamo accennato, rompere il dualismo Federer – Nadal, un po’ hanno agito alcuni atteggiamenti in campo, le pause bagno strategiche per esempio, ma la verità è che Djokovic ha sempre usato il tifo avverso per trovare stimoli e trasformarlo in forza propulsiva a suo vantaggio. Posso dirlo? Un Djokovic amato sarebbe stato un po’ meno vincente...". Perché è un atto rivoluzionario amare Nole? "Perché il tennis è un’arena perfetta per accogliere dei miti, dei simboli, e i grandi campioni della storia amati dal pubblico sono sempre stati miti cristallini, totalmente positivi, senza troppi chiaroscuri. Si pensi a Sampras, Agassi, Edberg, i già citati Federer e Nadal, lo stesso Sinner. Sono pochi i campioni controversi amati, forse solo McEnroe. Djokovic poi arriva in un tempo diverso, dove i grandi sportivi sono brand a tutti gli effetti. Lui in questo si distingue. Resta fallibile, autentico, non ha paura di dire ciò che pensa e non pensa troppo alle conseguenze, com’è accaduto con la vicenda dei vaccini. La parabola sportiva di Nole potrebbe essere la metafora della vita di ciascuno di noi". Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo visto una versione meno RoboNole, più umana… questo lo può far amare di più? "In parte sì, anche perché per quanto lo si possa trovare antipatico è difficile non riconoscerlo come leggenda assoluta d questo sport. Al pubblico piacciono le storie com’è giusto che sia, la gente ama le grandi imprese e immaginare un nonno burbero che nonostante gli acciacchi da vecchio leone può ancora battere i giovani emergenti è sicuramente un plot affascinante". A quasi 38 anni il pensiero del ritiro è qualcosa che Djokovic prova ad allontanare, quale sarà il momento in cui dirà basta? "Su questo punto mi fido molto della sua sincerità. Nole ha ripetuto spesso che giocherà fino a quando sentirà di essere competitivo per i massimi risultati, e Miami gli ha dato ragione dopo che tutti, dopo Indian Wells, erano pronti a darlo per finito. Io credo che lui abbia in mente un finale di carriera con qualche sorpresa...". Lo vedremo arrivare al titolo numero 100? "Ho pochi dubbi. Il titolo numero cento arriverà, al peggio nella sua Belgrado. Sarebbe una meravigliosa chiusura del cerchio, ma secondo me il suo vero obiettivo è fare anche di più e vincere il venticinquesimo Slam. Se un po’ ho imparato a conoscerlo scrivendo di lui ha nel mirino la posta maggiore, Wimbledon, per eguagliare Roger. Sarebbe magnifico. È il torneo più prestigioso, sulla carta quello che consente match più brevi, con meno dispendio fisico… quasi quasi scommetto su di lui". C’è stato qualcuno che le ha detto "dopo aver letto il tuo libro ora amo Djokovic”? "Sicuramente lo ha detto Sandro Veronesi, due volte premio Strega, direi che posso essere soddisfatto… tanto che lo abbiamo anche scritto in copertina. Ma io credo che conoscere a fondo la storia di Djokovic sia un privilegio per gli amanti di questo sport, della vita e della letteratura, come lo è stato per me studiarla e scriverne. C’è così tanta bellezza, gloria, sofferenza, forza in queste pagine – per merito di Nole – che sarà difficile per chi legge non amarlo almeno un po’. La parabola sportiva di Nole potrebbe essere la metafora della vita di ciascuno di noi, e cos’altro è la letteratura se non la possibilità di vivere altre vite che non sono la nostra e trarne emozioni e perché no, insegnamenti?".

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