La lezione di Velasco: "Ansia e pressioni? Si superano così"

Julio hai fatto qualcosa di straordinario con queste ragazze. Non solo per la National League, che è un tassello importante della loro carriera, ma per le vittorie consecutive e soprattutto per l’unione che hanno costruito. Quello che brilla di più è ciò che sono come persone, cosa che poi hanno trasmesso sul campo. “Sì, ma non è stata una cosa difficile, perché questo è un gruppo straordinario, particolare. Spesso succede che squadre che vincono molto hanno un gruppo speciale. Però non si sa mai se l’unione produce i risultati o se i risultati producono l’unione. A volte c’è un po’ di schematismo su questo: si dice che prima bisogna essere amici... ma non è detto. Magari prima si diventa compagni di squadra, poi amici, e allora le cose vanno bene. Se il gruppo o il leader c’è, poi se ne parla sempre. Nella vita, non solo nello sport, è sempre una combinazione delle due cose. Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, io non ho preteso che le ragazze fossero anche amiche. Ho detto: 'Potete anche non esserlo, l’importante è che siate buone compagne di squadra'. Ognuna ha un ruolo, dei compiti, e deve svolgerli bene. Poi, se facendo questo diventano anche amiche e il gruppo si trova bene, tutto è più facile e migliore. Ma non si sa mai se viene prima la gallina o l’uovo” La dimostrazione è che i tuoi valori si sono visti chiaramente in questa squadra. Valori che si erano già visti all’epoca dei ‘Fenomeni’, ma che ora emergono ancora più chiaramente: generosità, disponibilità, capacità di ammettere uno sbaglio, comprendersi e giustificarsi a vicenda. “Io credo che questi valori loro li avessero già. Solo che a volte certe cose vanno in crisi per mille fattori. Ma sono ragazze che questi valori li portano da casa. Soprattutto nel gioco di squadra, io lo dico spesso quando mi capita di parlare in ambienti non sportivi: gli sportivi si aiutano quando giocano, non perché sono amici, ma perché aiutarsi è parte del gioco. Se non aiuti il compagno, non stai giocando bene. In tutti gli sport è così. Quindi si parte da lì, non dal concetto generale. Se poi questo si trasmette a cose più generali, meglio: significa che lo sport ha un valore educativo. Ma anche se rimanesse solo nel campo, sarebbe già molto importante” Tu insegni il rispetto, ma in campo trasmetti divertimento, partecipazione, stimolo quando serve, ma anche piacere di esserci. E riesci a farlo arrivare anche al pubblico. “L’esperienza serve. Quando ero più giovane facevo più errori, anche come allenatore. L’allenatore cerca sempre un equilibrio tra motivazione e comprensione. Perché se c’è troppa comprensione, non si superano i propri limiti. Ma se si esagera nel forzare i limiti, poi si rovina tutto. Man mano che uno fa esperienza, riesce a fare meglio. Io mi sento meglio oggi di quando avevo 35 anni. È normale: vale anche per i giocatori. Un diciottenne non è come un trentenne. Bisogna anche capire che tutti sbagliamo. Il giocatore sbaglia un colpo, io sbaglio una decisione. Se io sbaglio 2 decisioni su 10, ho una percentuale dell’80%, che è altissima. Un giocatore con l’80% è formidabile. Quindi dobbiamo capirci: nessuno sbaglia apposta, nessuno vuole danneggiare la squadra. Semplicemente sbagliamo. E bisogna pensare subito alla palla dopo, alla partita dopo. Questa consapevolezza ci permette anche di avere rapporti migliori” Che cosa ti sei portato in questa seconda esperienza ad altissimo livello in Italia, rispetto al periodo dei ‘Fenomeni’? “A volte mi chiedono: come vedi i giovani di oggi rispetto a quelli del passato. E io rispondo che non li vedo così diversi. Sono cambiati i contesti. I giovani, soprattutto gli adolescenti, hanno da sempre problemi e virtù. I problemi derivano dall’età, le virtù sono entusiasmo, motivazione, ottimismo. Certo, c’è una grande differenza tra maschi e femmine. Entrambi sono bravi in cose diverse. Le donne, per esempio, sono molto perfezioniste, si perdonano poco. Se sbagliano, si auto-puniscono. E se noi maschi che comandiamo mettiamo il carico da 90, allora è ancora peggio. I maschi si giustificano di più, si aggrappano ai loro punti forti. Le insicurezze ci sono in entrambi, ma gli uomini sono più abituati a nasconderle, anche per stereotipi sociali. Quindi va tenuto conto di queste differenze. Mi diverte allenare le donne, perché vuol dire studiare, cercare di capire. Non credere di sapere già tutto” Come fai a migliorarti ancora oggi, dopo tutto quello che hai fatto, anche come comunicatore e motivatore? “Io credo che ci siano persone con un carattere umile ma con contenuti presuntuosi, e persone con un carattere più sicuro ma più aperti. Io mi sento parte di questo secondo gruppo. Sono sicuro di me, ho dei dubbi come tutti, ma credo che il contenuto non debba mai essere troppo sicuro. La storia dell’umanità ci insegna che tutto cambia. Un medico oggi non opera come 30 anni fa, e allora perché un allenatore dovrebbe fare le stesse cose? Alcuni si vantano di non cambiare mai. In particolare, nel calcio si sente dire: 'Le mie idee non cambiano mai'. Ma come? Tutto cambia, meno te? Io, anche per la mia storia culturale, credo molto nel cambiamento. Il mondo cambia costantemente. Quindi se uno vuole essere all’altezza, deve cambiare. Studiare, capire come cambia la metodologia, la gestione, l’ambiente. Prima non c’erano i social, non c’era internet. Il giocatore che andava all’Olimpiade era irraggiungibile. Ora riceve messaggi dalla mamma e dagli amici su WhatsApp che mettono ansia. Il mondo è diverso. E se cambia il mondo, dobbiamo cambiare anche noi. Come allenatori dobbiamo cercare quindi di aiutarli perché prima di tutto siamo degli insegnanti” Da quando sei entrato in squadra avete creato una striscia vincente straordinaria. Ora vi aspetta la nuova sfida del Mondiale. Che pressione ci sarà da qui all’evento? “La pressione c’è. Ma non deve stare dentro di noi. Non possiamo pensare a quello che abbiamo fatto, perché nello sport non c’è niente di più effimero della vittoria. Ogni campionato ha una sua storia. Al Mondiale, come all’Olimpiade, la partita chiave è quella dei quarti di finale: lì le squadre forti, come noi, il Brasile, la Turchia, hanno tutto da perdere. Se perdi i quarti, hai fallito. Se li vinci, sei in semifinale e ti giochi le medaglie. Dobbiamo evitare che l’ambiente, i social, i messaggi, ci condizionino. Niente paura, ma nemmeno presunzione: sarà molto difficile” Quindi è vietato pensare all’oro? L’obiettivo finale non deve nemmeno entrare nella visualizzazione mentale? “Esatto, è il percorso la chiave. Quelle frasi tipo ‘se lo puoi sognare, lo puoi fare’ non sempre sono vere. Se fosse così, io avrei giocato col numero 10 nell’Estudiantes de La Plata, e invece ho iniziato pallavolo a 15 anni. Sognare non basta. Serve fortuna, capacità, tante cose. Bisogna pensare passo dopo passo. Nel nostro sport, il ‘qui e ora’ è fondamentale. Pensare al passato, sia esso positivo o negativo, non aiuta. Pensare al futuro, ancora peggio. Conta ogni partita, ogni set, ogni punto. Anche nel tennis. I tennisti lo dicono sempre: restare focalizzati sulla palla, non andare via con la testa. Noi giochiamo uno sport da rimbalzo. Non c’è possibilità di rincorrere la palla o chiudersi in difesa. Ogni momento conta. E quando si arriva a queste grandi manifestazioni, la lotta vera è contro l’ansia” Come si combatte l’ansia? “La prima cosa è non averla. Perché se ce l’hai, si percepisce. I giocatori sono come i figli, sanno la verità anche se non gliela dici. Mi ricordo alle Olimpiadi: una ragazza cercava del ghiaccio, un collaboratore corse per portarlo. Gli dissi: ‘Vai piano’. Perché correre trasmette ansia, anche se lo fai per efficienza. Serve calma. Le ragazze finora hanno dato il massimo, non ho mai dovuto rimproverarle. Sanno quanto valgono. Ma la pressione c’è, inutile negarlo. E dobbiamo liberarcene. Pensare solo a giocare” Pensando alla tua esperienza, credi che il tuo metodo funzionerebbe anche con un singolo atleta? “Io non credo ci sia un ‘metodo Velasco’. Non è modestia. Ci sono metodologie nuove, basate sulla maggiore conoscenza del cervello. Questo ha cambiato tutto: la motivazione, l’ansia, i dubbi, le insicurezze, ma anche i punti forti. Negli sport di squadra si lavora molto sulla complementarità: io sono forte in una cosa, tu in un’altra, insieme siamo fortissimi. Negli sport individuali invece sono fenomenali nel superare i propri limiti. E da loro possiamo imparare” Oggi esistono ‘monoteam’ negli sport individuali. Ma anche nelle squadre resta forte la componente del lavoro su sé stessi. Come si coniugano individualità e collettivo? “Nelle squadre ci sono sempre interessi individuali: un giocatore vuole giocare titolare, avere un contratto migliore, arrivare in Nazionale. Ma il punto è che questi interessi devono combaciare con l’interesse collettivo. A volte non si capisce che un allenatore può non convocare un giocatore non perché non sia bravo, ma perché il suo interesse individuale non si allinea con quello del gruppo. Anche se si comporta bene. Negli sport individuali invece si sommano i punti, ma ognuno gareggia per sé. L’unico problema, magari, è un cambio sbagliato del testimone in staffetta” Siamo in Val di Fiemme, un contesto rilassante. Quanto è importante per te e per la squadra vivere momenti nella natura? “È molto bello cambiare ambiente. Io preferisco allenamenti brevi, dal lunedì al venerdì, e poi weekend a casa. Anche coi maschi facevo così. Non mi piacciono i ritiri lunghi. A Milano abbiamo un centro bellissimo, ma venire qui in Trentino è buono per loro. Cerco sempre di dare abbastanza libertà, perché si sentano il meno possibile in ritiro. Poi siamo in un posto favoloso, le Dolomiti sono uno dei posti più belli al mondo”

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Dody Nicolussi