Menchov, in quella caduta il senso di una vittoria giusta
Altri SportPAOLO PAGANI rivive il momento clou del Giro del Centenario: quando il russo finisce in terra sul selciato bagnato nell'ultimo km della crono. Finale thriller, essenza dello Sport. Finale magnifico, trionfo meritato. Ma a cos'avrà mai pensato Denis?
di PAOLO PAGANI
Il colpo di coda, il colpo al veleno, il colpo di scena. La beffa. L'ironia della sorte. E, diciamolo: un noooooo spontaneo. Tutto questo, un combinato disposto di emozioni chiuso nello spazio di pochissimi secondi, è emerso in chi guardava la crono romana quando, in quell'ultimo chilometro quasi fatale, Denis Menchov è caduto sul pavè.
Il Colosseo a portata di pedale, la doppia finestra tv schizzata di pioggerella pazza: una telecamera sul russo, l'altra sulla schienona color ciclamino di un Di Luca assatanato e piegato nelle spalle. Chi vincerà? Ce la farà Danilo, partito con una bici normale mentre Menchov ha scelto il trespolo nero da cronometro? All'improvviso: zacchete, il russo perde il controllo della ruota anteriore e va in terra. Giro riaperto in modo rapinoso e disonesto? Giro finito per lui, dominatore da Siusi ai Fori Imperiali?
Lì, in quell'istante fatale, tutto per un attimo infinito e scioccante è stato possibile. Lì, 3000 e rotti chilometri e tre settimane dopo il via da Venezia e tante chiacchiere su un Giro strambo e troppo "facile", lì si è manifestata l'essenza più vera di ogni finale thriller. Lì, tutto sommato, quel surrogato della vita che per comodità noi chiamiamo Sport ha rivelato tutta la sua fascinosa natura. L'Imprevedibile, l'Attimo che cambia tutto.
Come ne La Caduta (titolo emblematico, no?) di Albert Camus, capolavoro sotto forma di monologo datato '56, opera di un Nobel per la Letteratura, storia di un avvocato che in un bar racconta la parabola del proprio vuoto egoismo, un russo 31enne e poliglotta (Denis parla 5 lingue) ha rischiato tutto ma s'è rialzato e ha vinto. Protetto dagli Dei, chissà, ma molto prima dalla sua ammiraglia che gli ha mollato fra le mani fradice una nuova bici, Menchov è risalito, ripartito, e ci ha riprovato. Cosa mai gli avrà traversato la mente in quei pochi secondi, dal volo sul selciato alla posizione in sella riconquistata, non lo si saprà mai nemmeno se a raccontarcelo sarà prima o poi lui stesso.
Pazienza se i tifosi italiani hanno sperato. Pazienza se Di Luca, occhi sbarrati sul traguardo già oltrepassato e orecchie tese nell'auricolare che lo informava dell'accaduto, per un momento ha creduto di farcela. In barba alla meritocrazia, agli abbuoni persi, a una tattica sbagliata sin lì condotta. Il Giro del Centenario, ormai, si riassume in quell'episodio minimo e gigantesco. Nella caduta. E, perciò, della vittoria di Denis Menchov. Ancor più meritata. Bravo.
Il colpo di coda, il colpo al veleno, il colpo di scena. La beffa. L'ironia della sorte. E, diciamolo: un noooooo spontaneo. Tutto questo, un combinato disposto di emozioni chiuso nello spazio di pochissimi secondi, è emerso in chi guardava la crono romana quando, in quell'ultimo chilometro quasi fatale, Denis Menchov è caduto sul pavè.
Il Colosseo a portata di pedale, la doppia finestra tv schizzata di pioggerella pazza: una telecamera sul russo, l'altra sulla schienona color ciclamino di un Di Luca assatanato e piegato nelle spalle. Chi vincerà? Ce la farà Danilo, partito con una bici normale mentre Menchov ha scelto il trespolo nero da cronometro? All'improvviso: zacchete, il russo perde il controllo della ruota anteriore e va in terra. Giro riaperto in modo rapinoso e disonesto? Giro finito per lui, dominatore da Siusi ai Fori Imperiali?
Lì, in quell'istante fatale, tutto per un attimo infinito e scioccante è stato possibile. Lì, 3000 e rotti chilometri e tre settimane dopo il via da Venezia e tante chiacchiere su un Giro strambo e troppo "facile", lì si è manifestata l'essenza più vera di ogni finale thriller. Lì, tutto sommato, quel surrogato della vita che per comodità noi chiamiamo Sport ha rivelato tutta la sua fascinosa natura. L'Imprevedibile, l'Attimo che cambia tutto.
Come ne La Caduta (titolo emblematico, no?) di Albert Camus, capolavoro sotto forma di monologo datato '56, opera di un Nobel per la Letteratura, storia di un avvocato che in un bar racconta la parabola del proprio vuoto egoismo, un russo 31enne e poliglotta (Denis parla 5 lingue) ha rischiato tutto ma s'è rialzato e ha vinto. Protetto dagli Dei, chissà, ma molto prima dalla sua ammiraglia che gli ha mollato fra le mani fradice una nuova bici, Menchov è risalito, ripartito, e ci ha riprovato. Cosa mai gli avrà traversato la mente in quei pochi secondi, dal volo sul selciato alla posizione in sella riconquistata, non lo si saprà mai nemmeno se a raccontarcelo sarà prima o poi lui stesso.
Pazienza se i tifosi italiani hanno sperato. Pazienza se Di Luca, occhi sbarrati sul traguardo già oltrepassato e orecchie tese nell'auricolare che lo informava dell'accaduto, per un momento ha creduto di farcela. In barba alla meritocrazia, agli abbuoni persi, a una tattica sbagliata sin lì condotta. Il Giro del Centenario, ormai, si riassume in quell'episodio minimo e gigantesco. Nella caduta. E, perciò, della vittoria di Denis Menchov. Ancor più meritata. Bravo.