1° maggio, festa del Lavoro. Quanti intrecci con lo sport
Altri SportDallo Shakhtar Donetsk che, all'inizio, era dedicato ad Alexei Stakhanov, agli atleti olimpici sotto contratto con i gruppi sportivi delle forze dell'ordine, passando per il... dentista Pak Do Ik. Perché, prima o poi, il gioco deve fare i conti col lavoro
di Lorenzo Longhi
Per definizione, lo sport - in quanto gioco - non è lavoro. O, almeno, non è così in teoria, mentre nella pratica a livelli professionali lo è, per quanto singolare. Eppure, proprio nel giorno in cui si celebra il Lavoro con la "l" maiuscola, è curioso notare quanti, anche nel mondo dello sport professionistico, siano gli intrecci con un mondo che in teoria c'entra ben poco.
Eppure, indipendentemente dai motivi che portano a certi intrecci, ve ne sono di assai interessanti. Nella leggenda della Nazionale azzurra, ad esempio, fra i ricordi più brutti, c'è un dentista. Pak Doo Ik, il sudcoreano che beffò l'Italia ai Mondiali inglesi del '66, entrò nel mito come dentista, appunto, pur non essendolo mai stato nella realtà. Era un calciatore dilettante, ex tipografo inquadrato nell'esercito, divenne celebre in tutto il mondo con quel gol, ma viene ricordato per un lavoro che non esercitò mai.
Lo Shakhtar Donetsk, oggi opulento club ucraino, nel suo nome ha una storia legatissima al lavoro. "Shakhtar" significa "minatore", ma in effetti già il primo nome del club era piuttosto indicativo: Stakhanovets, dedicato ad Alexei Stakhanov, il minatore che entrò nella leggenda socialista per la sua straordinaria produttività. Per anni, in realtà, i suoi giocatori hanno svolto altri lavori, quando il calcio non era una professione. E' accaduto, in realtà, anche a tanti famosi calciatori italiani che il mondo del lavoro lo hanno conosciuto prima di fare denaro con il pallone. Recentemente, è stato il caso di Antonino Asta. Nel Toro arrivò sino alla Nazionale, a trent'anni suonati. Eppure, a 22, faceva il barista, prima di accettare un contratto a due milioni di lire al mese con il Saronno, in C2. Per non parlare dei tanti ragazzi che, nelle giovanili, sognano il "lavoro" di calciatore e, invece, un lavoro poi se lo devono cercare altrove. A volte, è anche una questione di fortuna.
Ci sono poi gli atleti di gran parte degli sport olimpici, che nel nostro Paese fanno quasi sempre parte dei gruppi sportivi delle forze dell'ordine: Fiamme Oro, Fiamme Gialle, Carabinieri, Polizia, Esercito, Aeronautica, una sorta di professionismo di stato che inquadra gli atleti anche a fine carriera. Già, perché a fine carriera il dopo, per molti idoli dello sport è fatto di lavoro e cambiamenti repentini. Accade quando si spengono le luci e lo sport torna ad essere un gioco. Intorno, c'è la vita. E c'è il lavoro. Quando c'è.
Per definizione, lo sport - in quanto gioco - non è lavoro. O, almeno, non è così in teoria, mentre nella pratica a livelli professionali lo è, per quanto singolare. Eppure, proprio nel giorno in cui si celebra il Lavoro con la "l" maiuscola, è curioso notare quanti, anche nel mondo dello sport professionistico, siano gli intrecci con un mondo che in teoria c'entra ben poco.
Eppure, indipendentemente dai motivi che portano a certi intrecci, ve ne sono di assai interessanti. Nella leggenda della Nazionale azzurra, ad esempio, fra i ricordi più brutti, c'è un dentista. Pak Doo Ik, il sudcoreano che beffò l'Italia ai Mondiali inglesi del '66, entrò nel mito come dentista, appunto, pur non essendolo mai stato nella realtà. Era un calciatore dilettante, ex tipografo inquadrato nell'esercito, divenne celebre in tutto il mondo con quel gol, ma viene ricordato per un lavoro che non esercitò mai.
Lo Shakhtar Donetsk, oggi opulento club ucraino, nel suo nome ha una storia legatissima al lavoro. "Shakhtar" significa "minatore", ma in effetti già il primo nome del club era piuttosto indicativo: Stakhanovets, dedicato ad Alexei Stakhanov, il minatore che entrò nella leggenda socialista per la sua straordinaria produttività. Per anni, in realtà, i suoi giocatori hanno svolto altri lavori, quando il calcio non era una professione. E' accaduto, in realtà, anche a tanti famosi calciatori italiani che il mondo del lavoro lo hanno conosciuto prima di fare denaro con il pallone. Recentemente, è stato il caso di Antonino Asta. Nel Toro arrivò sino alla Nazionale, a trent'anni suonati. Eppure, a 22, faceva il barista, prima di accettare un contratto a due milioni di lire al mese con il Saronno, in C2. Per non parlare dei tanti ragazzi che, nelle giovanili, sognano il "lavoro" di calciatore e, invece, un lavoro poi se lo devono cercare altrove. A volte, è anche una questione di fortuna.
Ci sono poi gli atleti di gran parte degli sport olimpici, che nel nostro Paese fanno quasi sempre parte dei gruppi sportivi delle forze dell'ordine: Fiamme Oro, Fiamme Gialle, Carabinieri, Polizia, Esercito, Aeronautica, una sorta di professionismo di stato che inquadra gli atleti anche a fine carriera. Già, perché a fine carriera il dopo, per molti idoli dello sport è fatto di lavoro e cambiamenti repentini. Accade quando si spengono le luci e lo sport torna ad essere un gioco. Intorno, c'è la vita. E c'è il lavoro. Quando c'è.