Addio Hector Camacho, il campione "Macho"
Altri SportIl suo destino era racchiuso tutto nel suo soprannome, “Macho”, che unito al nome non creava solo un suono indimenticabile: il "machismo" nell'America Latina è una filosofia di vita e il portoricano ne aveva fatto il suo biglietto da visita
di Mario Giambuzzi
Il destino di Hector Camacho era racchiuso tutto nel suo soprannome, “Macho”, che unito al nome del pugile non creava solo un suono indimenticabile. Il “machismo”, soprattutto nell’America latina, è una filosofia di vita, un modo di relazionarsi con il mondo esterno. Il portoricano Camacho, nato nella violenta Bayamon, ne aveva fatto il suo biglietto da visita, prima di diventare, a diciotto anni, un pugile professionista, durante la lunghissima carriera sul ring, una volta abbandonati definitivamente i guantoni. Negli ultimi anni della sua eccentrica vita, ha avuto problemi legati alla droga e alle violenze domestiche. Proprio un regolamento di conti tra narcotrafficanti sembra abbia causato la sparatoria che ha fatto suonare l’ultimo gong per il cinquantenne Camacho. Hector faceva impazzire le donne, amava stupire e dare spettacolo, sempre e comunque. Aveva frequentazioni pericolose, come l’amico narcotrafficante che era in auto con lui la notte della sparatoria, il primo a cadere sotto i colpi. Hector ha cercato di resistere, la sua tempra d’atleta lo ha aiutato per un po’, ma l’ultima battaglia è sembrata subito disperata, impossibile. A noi piace ricordarlo sul ring, quando stupiva tutti presentandosi vestito da gladiatore, con gonnellini improbabili, con acconciature incredibili. E soprattutto quando dava vita a battaglie memorabili, riuscendo a conquistare tre titoli mondiali negli anni ’80 in tre diverse categorie, superpiuma, leggeri e superleggeri. Hector “Macho” Camacho è stato un mancino che, in trent’anni di carriera, ha vinto 79 incontri (38 dei quali prima del limite), pareggiandone tre e perdendone sei. Non è mai finito KO, pur avendo affrontato campioni del calibro di Ramirez, Rosario, Mancini, Chavez, Trinidad, Duran, Leonard e De la Hoya. Purtroppo non è stato altrettanto attento fuori dal ring.
Il destino di Hector Camacho era racchiuso tutto nel suo soprannome, “Macho”, che unito al nome del pugile non creava solo un suono indimenticabile. Il “machismo”, soprattutto nell’America latina, è una filosofia di vita, un modo di relazionarsi con il mondo esterno. Il portoricano Camacho, nato nella violenta Bayamon, ne aveva fatto il suo biglietto da visita, prima di diventare, a diciotto anni, un pugile professionista, durante la lunghissima carriera sul ring, una volta abbandonati definitivamente i guantoni. Negli ultimi anni della sua eccentrica vita, ha avuto problemi legati alla droga e alle violenze domestiche. Proprio un regolamento di conti tra narcotrafficanti sembra abbia causato la sparatoria che ha fatto suonare l’ultimo gong per il cinquantenne Camacho. Hector faceva impazzire le donne, amava stupire e dare spettacolo, sempre e comunque. Aveva frequentazioni pericolose, come l’amico narcotrafficante che era in auto con lui la notte della sparatoria, il primo a cadere sotto i colpi. Hector ha cercato di resistere, la sua tempra d’atleta lo ha aiutato per un po’, ma l’ultima battaglia è sembrata subito disperata, impossibile. A noi piace ricordarlo sul ring, quando stupiva tutti presentandosi vestito da gladiatore, con gonnellini improbabili, con acconciature incredibili. E soprattutto quando dava vita a battaglie memorabili, riuscendo a conquistare tre titoli mondiali negli anni ’80 in tre diverse categorie, superpiuma, leggeri e superleggeri. Hector “Macho” Camacho è stato un mancino che, in trent’anni di carriera, ha vinto 79 incontri (38 dei quali prima del limite), pareggiandone tre e perdendone sei. Non è mai finito KO, pur avendo affrontato campioni del calibro di Ramirez, Rosario, Mancini, Chavez, Trinidad, Duran, Leonard e De la Hoya. Purtroppo non è stato altrettanto attento fuori dal ring.