Benvenuti, 60 anni dopo Roma: Olimpiadi nel cuore

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Anna Maria Di Luca

Olimpionico, campione del mondo, animo nobile e grande passione per la vita e per la boxe. Nino Benvenuti, nel 1960, a 22 anni, vinceva l'oro per la categoria dei welter, combattendo la finale il 5 settembre al Palazzo dello Sport dell'Eur. Per celebrare i 60 anni di quella storica Olimpiade il campione italiano ad 82 anni è tornato per noi sul ring che ora si trova al Centro Sportivo Olimpico dell'Esercito

 Più di mezzo secolo dopo. Nino Benvenuti entra nella palestra che ancora utilizza uno di quei ring storici delle Olimpiadi di Roma '60. Il 'prezioso'quadrato' che più volte vibrò sotto i colpi dei 3 round olimpici sferrati dalla nazionale azzurra di pugilato, ma non solo. L' Italia conquistò tre ori, tre argenti ed una medalia di bronzo.  Ma ci fu anche l’oro di Cassius Clay.

“Sono emozionato ad essere qui - esclama il campione istriano mentre  in camicia di lino azzurro saggia il manto del ring al Centro Sportivo Olimpico dell’Esercito, a Roma, che il 13 agosto ci ha aperto le porte.

“Era ad Orvieto, alla Scuola di addestramento sportivo dell'esercito - ci raccontano alla Cecchignola - ci fu regalato dalla Federazione Pugilistica, poi una volta chiuso il presidio il ring è stato trasportato qui, abbiamo rifatto più volte le corde, ma abbiamo anche la targa che attesta quelle medaglie e ce la faremo firmare dal nostro campione", sorridono.

Benvenuti osserva con attenzione quella pergamena incorniciata e appesa al muro,  lo ritrae giovanissimo con la medaglia al collo in quel 5 settembre 1960  e se la gode: “L’ Olimpiade è il punto di arrivo per ogni atleta - esclama - tutti vogliono prendervi parte e vincere, è il sogno, ma vincere non è facile. Io ho partecipato ed ho vinto, mi sono sempre sentito fortunato per questo. Certo mi davano per favorito, avevo già vinto da dilettante due Europei, di sicuro però  Giulio Onesti, il presidente della Federazione, ne era più convinto di me.”

 Si guarda intorno: "Bello qui". E intanto si aggira nel locale attrezzato con sacchi nuovissimi, un centro di allenamento del 2020! Si ferma ad un sacco, ne sente con un dito la consistenza  e prova a tirare con i pugni nudi: "Caspita è duro, non avevo mai visto sacchi così grandi. Da ragazzo me n'ero fatto uno da solo. Vivevamo in campagna,  ho preso un sacco e l’ho riempito del frumento che avevo a portata di mano. Lo tenevo appeso alla trave del soffitto in cantina, facevo ginnastica e poi mi allenavo con quell'affare fatto in casa. Io sono un pugilatore”.  E’ così che Benvenuti ama chiamarsi, usa un termine ora desueto e che la Treccani definisce: 'atleta che pratica il pugilato (anche come esercitazione e competizione atletica nell’antichità)'.  Benvenuti, quanto è lontano quel suo pugilato? “Lo è tanto perchè è passato molto tempo. Ma è un modo di combattere che non si dimentica. Eravamo forti, ci seguivano in molti, i palazzetti stracolmi”.  E poi ricorda il villaggio olimpico: “Facevamo una vita da segregati, ma lo avevamo scelto noi, volevamo vincere”.

Il Campione ha ora 82 anni, ha portato con sé, per l’intervista, il guantone di allora, quello con cui atterrò con un sinistro il sovietico Yury Radonyank: “Lo mandai giù ma vinsi ai punti, non era scontato, in quell’epoca i russi erano considerati imbattibili”. Lo rigira tra le mani, lo guarda con attenzione come se non lo vedesse da quel giorno, nota che c'è ancora la sua firma ed i cerchi olimpici in bella evidenza, ci mostra la data 1960. Se lo infila: “Mi va...mi va - ci tranquillizza – i guantoni hanno una misura unica, le mani non cambiano più di tanto”.  Ed inizia a tirare al sacco del 2020:  “Questo però non è da sacco, eh" precisa.  Lo stile di Nino (Giovanni) Benvenuti, olimpionico pesi welter, campione del mondo nei mediomassimi, co-autore di una storica trilogia con Emile Griffith, (due vittorie d una sconfitta) e che mollò la boxe dopo la seconda sconfitta patita nel 1971 da Carlos Monzon,  è tutto ancora lì. Il suo volto si illumina, il sorriso che lo ha sempre contraddistinto, oltre l’eleganza, si allarga, gli piace ricordare: “A Roma combattevo con la fede di mia mamma legata ai lacci delle scarpette, lei era morta, l'avevo persa già. La prima persona cui pensai mentre mi premiavano fu mio padre Fernando. lo volli abbracciare subito, sapevo di farlo molto felice”. 

A Roma non era certo solo, l'Italia del pugilato aveva una bella squadra: "Come no, gli altri 2 ori furono Franco Musso nei pesi piuma e Franco De Piccolo nei massimi, soprattutto questa rimane una vittoria davvero storica, si trattò del primo oro azzurro in questa categoria". E poi c’era un certo Cassius Clay…  “Un campione vero, una persona estremamente intelligente, irraggiungibile come valore assoluto - confessa -  lo ammiravo e lo stimavo molto e quando ebbi l’occasione poi di conoscerlo e di frequentarlo mi resi conto che non bastava avere dei muscoli ma era necessario anche, diciamo, il cervello, avere un anima e lui aveva sì il cervello, ma aveva l'anima che lo sosteneva e ne faceva un grande campione".  A lei fu assegnata anche la Coppa Val Barker, riconoscimento per il miglior pugile del torneo, ed in molti davano per scontato sarebbe invece stata data a Muhammad Ali: "Qualcuno dice ancora che la strappai  a lui,  non ho strappato niente, avrebbe potuto vincerla lui, ma hanno ritenuto che la meritassi io e, posso dire che è uno dei riconoscimenti più importanti della mia carriera”. 

Fino ad allora aveva combattuto nella categoria dei superwelter, ma per Roma '60 le fu chiesto di cambiare e passare ai welter, per cercare la vittoria si decise che lei perdesse 4 kg: "Col senno del poi fu una buona scelta, ma l’estate era molto calda ed io che ero sempre stato 71 kg dovetti scendere a 67, non fu una passeggiata”.  Poi divenne professionista, la sua carriera decollò, salì di categoria,  conquistò il Mondiale più di una volta: "Vero, ma ho sempre pensato che il titolo mondiale poi arriva sempre qualcuno e te lo porta via, un oro olimpico no.  Nessuno potrà mai portarmi via la medaglia di Roma 1960".