Muratore: "La mia vita tra Ligabue, Mourinho e il Covid"

L'intervista

Francesco Berlucchi

Credit foto: FIPPS - Associazione Visiva ONLUS

Mattia Muratore è l’ex capitano della Nazionale italiana di wheelchair hockey, campione del mondo nel 2018. Nominato ambasciatore dello sport paralimpico, gioca negli Sharks Monza in Serie A1, club del quale è anche presidente. Adora Luciano Ligabue e l'Inter, impazzisce per Antonio Conte e ha conosciuto José Mourinho, che è stato fondamentale nella sua carriera sportiva. Vi raccontiamo perché

Mattia Muratore ha 36 anni, gli occhi vispi e un cervello abituato a ragionare in fretta. Ha un tatuaggio, "Anni di fatica e botte e vinci casomai i mondiali". Le parole sono di Luciano Ligabue, una delle grandi passioni di Mattia. Lui i mondiali li ha vinti davvero, da capitano della Nazionale italiana. Quella di wheel-chair hockey, l’hockey su carrozzina elettrica. Una disciplina diffusissima nel Nord Europa, praticata soprattutto da atleti con patologie neuromuscolari come la distrofia muscolare o l'atrofia muscolare, che hanno una disabilità molto severa.

 

Mattia vive ad Arcore, alle porte di Monza. È playmaker e capitano degli Sharks, la squadra del capoluogo brianzolo, Serie A1, della quale da gennaio è anche presidente dopo la scomparsa di Luigi Parravicini, lo storico numero uno. Ci racconta che la seconda ondata di Covid-19 ha colpito duro nel cuore della Brianza. Il San Gerardo di Monza, l'ospedale più grande di tutta la provincia, è al collasso. Il centro medico dell'autodromo è stato trasformato in un check point clinico avanzato per evitare di ingolfare le strutture sanitarie, già sotto forte pressione. Per Mattia e per i suoi compagni di squadra, il virus potrebbe avere effetti devastanti. "Il rischio non è solo il Covid-19 - spiega -. Anche una semplice influenza può costituire un problema per noi. La mia patologia non è neuromuscolare, riguarda l'apparato scheletrico, cioè non il muscolo ma l'osso. Si chiama osteogenesi imperfetta. Ho problemi respiratori, di notte uso un ventilatore polmonare per dormire perché la mia cassa toracica non mi permette di avere una respirazione sufficiente, e quindi ho bisogno un aiuto esterno. Nella nostra squadra, il 70% dei ragazzi usa questo ventilatore e alcuni di loro sono costretti a farlo anche nelle ore diurne. È un elemento costante nelle nostre vite".

 

In queste condizioni, giocare, in casa come in trasferta, è assolutamente impossibile. Lo è perfino allenarsi. L'ultimo campionato non si è concluso, era partito regolarmente a ottobre, si è giocato fino a metà febbraio. Poi è esplosa la pandemia, e dopo una prima fase di incertezza la Federazione italiana paralimpica powerchair sport, l'ex Fiwh, ha deciso di non assegnare il titolo. "Quando è stato possibile - racconta Mattia - siamo tornati ad allenarci, sempre nel rispetto delle norme generali e del protocollo che la nostra Federazione aveva diramato. Ma abbiamo dovuto fermarci di nuovo, almeno fino al prossimo gennaio. Però, appena quest’estate abbiamo riaperto la palestra, mi ha colpito moltissimo vedere i miei compagni di squadra puntuali all'allenamento. Nonostante corressero un rischio molto alto, erano lì. Tutti i requisiti che permettevano l'attività sportiva erano garantiti, dalla sanificazione degli ambienti alla misurazione delle temperature. Ma non avrei mai immaginato tanta partecipazione, questo significa che per tanti di noi l'hockey non è solo qualcosa di importante. È insostituibile. Ho compagni di squadra che vivono una situazione molto più grave della mia, legata alla loro patologia. Alcuni di loro non possono lavorare, o stare fuori casa per troppo tempo. Per loro lo sport rappresenta una ragione di vita, è tutto, è la loro vita sociale".

 

In questi casi, rinunciare a giocare a hockey vuol dire eliminare quel pensiero fisso che ti accompagna ogni giorno, che non è solo la partita ma la preparazione della partita, l'attenzione maniacale a ogni minimo dettaglio. La stessa cura dei particolari, ben miscelata con dedizione e impegno costanti, ha portato Mattia sul tetto del piccolo grande mondo di questo sport. Un'avventura che ha avuto inizio dieci anni fa, a Lignano Sabbiadoro, quando era una giovane promessa e l'Italia del powerchair hockey provava faticosamente a farsi spazio. "Mi convocarono al ritiro della Nazionale - racconta, con il sorriso e gli occhi che brillano - ma credo che il nostro allenatore avesse già bene in mente chi portare al mondiale. La squadra era già fatta, voleva solo mettere pressione ai titolari, fare capire loro che nessuno aveva il posto garantito. Bisognava dare tutto". 

 

A quel mondiale, Mattia non andò. L'Italia arrivò soltanto quarta, nonostante vi fossero molte aspettative. Nei mesi successivi la squadra fu rivoluzionata e si aprì un nuovo ciclo. "Da allora ho sempre fatto parte della Nazionale - continua -. Nel 2012, agli europei, siamo arrivati quinti, mentre nel 2014 ai mondiali di Monaco di Baviera fu una disfatta totale. Vinse l'Olanda battendo in finale il Belgio, esattamente come due anni prima. Quel giorno, capimmo che questo sport aveva preso una direzione completamente diversa dalla nostra. Gli olandesi si allenavano e ragionavano come atleti professionisti, non solo dal punto di vista tattico ma anche tecnico, a partire dalla preparazione delle carrozzine elettriche. Noi avevamo tanto cuore, tanta anima, ma non bastava più. Fu allora che cambiò la nostra mentalità. Il numero di raduni raddoppiò, gli allenamenti andavano avanti finché si scaricavano le carrozzine. Lavoravamo sulla personalità, sulla cattiveria agonistica, sulla concentrazione. Abbiamo modificato il nostro modo di giocare, abbiamo messo da parte le nostre certezze. Ci hanno spremuto come limoni, ma era l'unica strada possibile per provare a ridurre il gap con gli olandesi, i belgi, i danesi".

 

A Mattia fu affidato il ruolo di capitano della Nazionale: "Con grande sorpresa di tutti, perfino nostra, agli europei del 2016 arrivammo in finale. Perdemmo tanto a poco con l'Olanda (7 a 2, ndr), ma fu comunque il miglior risultato della storia del powerchair hockey italiano fino a quel momento. Intuimmo di essere sulla strada giusta, eravamo a metà dell’opera".

 

Bisognava reggere il ritmo per altri due anni, fino ai prossimi mondiali, che si sarebbero giocati proprio in Italia. Era un'occasione unica. Nel 2018 c'erano cinque squadre che potevano vincere, tutte europee: l'Italia, l’Olanda, la Danimarca, la Svizzera e la Germania. Nel girone la Svizzera batté inaspettatamente l’Olanda, ma l’Italia guidata da Saul Vadalà superò gli elvetici. Alla fine Italia, Olanda e Svizzera conclusero la prima fase con sei punti, passarono Olanda e Italia per differenza reti. In semifinale trovammo la Germania, come agli europei del 2016. Vincemmo ai rigori. Dall'altra parte del tabellone, l’Olanda sembrava poter spazzare via la Danimarca, che invece riuscì a battere 4 a 3 i campionissimi. In finale con la Danimarca fu durissima. Dopo l’1 a 1 dei tempi regolamentari, si andò un’altra volta ai rigori. "Io ho tirato i rigori sia in semifinale sia in finale, come primo rigorista - ricorda Mattia -. È stato il momento più importante di tutta la mia carriera sportiva. Avevo deciso che avrei lasciato la Nazionale già da alcuni mesi, indipendentemente da come sarebbe finito il mondiale. Indipendentemente dal risultato di quel rigore. Ma per essere lì, a tirarlo, mi ero giocato ogni singola energia che avevo".

 

Il mondiale iniziava a settembre. A fine marzo dello stesso anno, Mattia cadde dalla carrozzina, proprio nell'anno decisivo. "Avevo una paura tremenda di non riuscire a tornare in tempo - racconta -. Mi sono rotto una gamba e un braccio in maniera scomposta. Sono stato fermo più di tre mesi, è stato devastante. Quando sono riuscito a tornare al raduno, a metà giugno, non riuscivo a giocare. Parlai con l’allenatore: "Se la situazione è questa, dimmelo chiaramente. Non riesco a fare niente". Fu allora che coach Vadalà mi prese da parte e mi disse: "Tu hai sempre fatto parte di questo gruppo. Non solo verrai al mondiale, ma quando conterà in qualche modo ci sarai". E così è stato. Al mondiale ho giocato poco, non fui mai titolare. Ma quando si è trattato di battere i rigori decisivi, ci sono stato".

 

L'importanza di esserci, anche per pochi secondi, ma quando conta davvero. Il tiro partì, la rete si gonfiò. L'Italia, per la prima volta nella storia del wheelchair hockey, è campione del mondo. Nei mesi successivi, il 70% della squadra lasciò la Nazionale, allenatori compresi. Nel 2019 Mattia è stato nominato ambasciatore dello sport paralimpico da Luca Pancalli, presidente del Cip. "Mi piace un casino - spiega - perché non è una medaglia sul petto, mi permette di raccontare quello che abbiamo fatto. Io non parlo della mia storia personale, ma di come è stato possibile far riemergere dalle sue ceneri una Nazionale, con giocatori considerati finiti, sul viale del tramonto".

 

Il vero obiettivo di Mattia, oggi, è vincere il campionato con gli Sharks, che per tre volte hanno sfiorato il titolo ma non sono mai andati oltre il secondo posto. "Ci proverò finché Erika mi darà il permesso di giocare», sussurra. Erika è la sua fidanzata, l'ha conosciuta grazie a Luciano Ligabue, per il quale condividono la stessa passione viscerale. Già, perché Mattia ha fatto parte anche del cast del docufilm Niente paura. "La mia storia - spiega - era stata inserita nel film insieme a quella di Javier Zanetti, sulle note di Una vita da mediano. Alcuni anni dopo, Erika mi rintracciò su Facebook dopo aver visto il film. Ci siamo conosciuti, prima solo come amici, ma dopo qualche tempo è nato l’amore".

 

Con Erika, Mattia è andato a Londra. Per vedere il Big Ben o Buckingham Palace? No, per assistere all'esordio di Antonio Conte allo Stamford Bridge. "Conte mi piace tantissimo. Nel 2016, dopo il suo europeo con l’Italia, ho voluto vedere la sua prima partita sulla panchina del Chelsea. Essendo un tifoso sfegatato dell’Inter, quando la dirigenza nerazzurra lo ha portato a Milano non stavo nella pelle. Spero che rimanga il più possibile, e che ci riporti in alto".

 

C'è però un allenatore dell’Inter che Mattia ha conosciuto personalmente, José Mourinho. "Era il 2010, l’anno del Triplete. Io ero ad Appiano Gentile per le riprese di Niente paura e mi impuntai: 'Non vado via se non riesco a salutare Mou'. Lui era lì, in attesa di iniziare l’allenamento pomeridiano. In quel periodo mi chiedevo cosa stessero aspettando a convocarmi in Nazionale. Avevo già fatto vedere quello che sapevo fare in campo, ma non era bastato. Parlando con Mourinho, l'argomento saltò fuori. Lui mi guardò con fare sicuro di sé e tuonò: 'Dimmi come si chiama il tuo allenatore, ci parlo io'. Era fine novembre. Sarà una coincidenza, ma dopo due settimane mi hanno convocato in Nazionale".