I mille volti di Tyson Fury, 'l'ultimo dei classici' che si ritira

È stato fra di noi fino a qualche settimana fa, eppure ha sempre dato l’idea di essere una figurina venuta dal passato. L’ultimo dei classici. L’età dell’oro della boxe ce l’aveva scolpita già nel nome. Tyson Fury portava con sé l’eco degli anni Ottanta, il ricordo di quel Mike apparso sulla scena davvero come una furia, lui che tutti abbatteva in una gara contro il tempo, il k.o. prima o poi sarebbe arrivato. Anche Tyson Fury si è sentito crudele e feroce. Di più. Si è sentito il migliore. Il migliore di ogni tempo. Neppure adesso che tutto è finito, neppure adesso che ha annunciato il ritiro riesce a parlare di sé al passato, come al passato non aveva parlato le altre due volte in cui aveva detto basta, davvero, non ce la faccio più, per ripensarci nel giro di qualche giorno. Fury è stato uno showman, in America hanno detto che è stato il Circo Barnum della boxe, un posto per definizione antico, un posto dove i ring non sono cambiati rispetto al Novecento, i gong fanno lo stesso rumore e a nessuno è ancora venuto in mente di rivestire le ragazze che sollevano i cartelli fra una ripresa e l’altra, oppure di mandarle a casa come ha fatto la MotoGP con le ombrelline. La boxe è sempre stato il posto dove il campione del mondo dei pesi massimi era più famoso di cento, centocinquanta capi di stato, oppure come diceva Bob Dylan: il campione del mondo dei pesi massimi è anche il maggior poeta dell'anno. Poeta maledetto Se poeta è stato Fury, allora si è trattato di un maledetto. Una specie di Baudelaire intento a spiaccicare i suoi fiori del male sulle facce altrui. Fury si è fatto odiare senza pensare che gli stessero facendo un torto. L’odio è soltanto invidia con un cattivo ufficio stampa. Una volta si presentò a Düsseldorf davanti a Wladimir Klitschko travestito da Batman, disse che l’ucraino era un campione, d’accordo, ma un campione rammollito. Disse che aveva il fascino di un paio di mutande mentre lui no, lui si paragonava a Muhammad Ali e non gli bastava. Non voleva stupire, voleva scandalizzare. Ci riuscì. Gridò che andava liberalizzato il doping. Si mise a predicare tutto il catalogo del politicamente scorretto, dichiarandosi sicuro che l’aborto e l’omosessualità avrebbero portato il mondo a marcire. Li mise alla stregua della pedofilia, “chi avrebbe mai detto che due cose su tre sarebbero state legalizzate”. Un uomo lo sentì alla radio e chiamò la polizia. Centomila persone firmarono una petizione per chiedere che il suo nome fosse cancellato dall’elenco dei candidati al titolo di sportivo dell’anno. Non sono omofobo, così si difese Tyson Fury. Non era neppure sessista, rispose, quando gli fecero notare che non stava bene dire che il posto giusto per una donna è la cucina. Porta il nome della brutalità perché così volle suo padre. Era nato prematuro, di sei mesi, cinquecento grammi di peso. Chiamarlo Tyson serviva a immaginare l’esistenza di una forza nascosta da qualche parte, l’avrebbero trovata e l’avrebbero tirata fuori. Quando ne tirò fuori anche troppa, quando aumentò di peso fino a 180 chili e si sentiva prendere in giro, ne perse 70 in un anno con una dieta di chetoni, cominciando a colpire di destro e di sinistro, sentendo addosso la responsabilità e le aspettative di una famiglia che si era data alla boxe, ma con un destino incompiuto. Papà John si faceva ingaggiare in certi combattimenti a mani nude in cambio di qualche biglietto di dollari e avrebbe poi tentato la carriera da professionista. Uno zio faceva l’allenatore, un cugino era stato campione dei massimi in Irlanda, un altro dei medi. Ma di battersi ancora per l’Irlanda, questo non avrebbero dovuto chiederglielo, mai più, non dopo essere stato lasciato fuori dalla squadra che andava ai Giochi del 2008 in Cina. Se lo era legato al guantone. Ciao Irlanda, mi faccio britannico. Ma gli inglesi sono quel popolo che a Wimbledon facevano il tifo per Andy Murray, salvo chiamarlo scozzese a ogni sconfitta. Anche Tyson Fury ha sperimentato il gelo della solitudine quando è caduto nella droga, in una doppia squalifica per nandrolone e cocaina, in una licenza ritirata, in una dipendenza da alcol e pasticche, e poi nella depressione, nella tentazione di trovare una maniera per farla finita. Su Twitter si faceva chiamare Tysonmontana, la crasi perfetta tra Iron Mike e lo Scarface di Al Pacino. Una volta disse: “Posso solo sperare che qualcuno mi uccida prima che lo faccio io”. Ha vinto il titolo e lo ha difeso, lo ha difeso, lo ha difeso, è rimasto imbattuto per 35 match, ogni volta promettendo a sua moglie che era l’ultima, te lo giuro amore, l’ultima, ma solo per commuoverla e sentirsi dire da lei che doveva andare avanti, che non ce la faceva a vederlo in casa sul divano, davanti alla televisione, a soffrire senza la boxe. Ora che la signora Paris ha cambiato linea e ha minacciato di chiedere il divorzio se lui si ostina ancora a inseguire Usyk, Tyson Fury ha pronunciato di nuovo la parola basta. I promoter non hanno smesso di telefonare a casa. Offrono un match tutto britannico con Anthony Joshua. Il New York Times ha scritto che è impossibile. Impossibile che non ci ripensi e non ritorni. Di nuovo. Tyson la furia. L’ultimo dei classici.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

I mille volti di Tyson Fury, 'l'ultimo dei classici' che si ritira

Lavinia Esposito