Mao, Doualla e le quindicenni d’Italia

Quando Gigliola Cinquetti vinse il festival di Sanremo da sedicenne, era del tutto consapevole di non avere l’età. Ce lo disse, lo cantava, non aveva l’età per uscire da sola. Solo che il tempo passa, ogni cambiamento viaggia a una rapidità imprendibile e l’Italia del 1964 è diventata archeologia. L’estate sportiva del 2025 è venuta a mostrarlo senza equivoci. Ha portato in dono due ragazze più piccole della Gigliola Cinquetti di quel tempo, due schegge di una generazione che chiede di essere considerata con occhi nuovi, di essere compresa. Kelly Doualla e Alessandra Mao sono arrivate nei due sport più globali, quelli che sovrastano ogni quattro anni le due settimane olimpiche. Una è nata a Pavia, ha compiuto 15 anni a novembre, studia al liceo scientifico sportivo e ha vinto i 100 metri agli Europei Under-20 di atletica in 53 passi e mezzo, battendo ragazze più grandi di lei di tre e di quattro anni. Ha un primato personale di 11.21, mezzo secondo più veloce dell’attuale primatista italiana Zaynab Dosso alla stessa età. L’altra è di Venezia, ha solo 14 anni e cinque mesi, ha appena finito la terza media e ha nuotato i 200 stile libero agli Europei giovanili in 1:57.00, nei paraggi del tempo che Federica Pellegrini faceva a 19 anni. Nessuno sa cosa diventeranno. I loro risultati di quest’estate sono una premessa, non una garanzia. Quando smetti di essere la guastafeste sbucata dal nulla, quando cammini sotto l’occhio di bue che ti inquadra, il panorama cambia. Cambiano pure i corpi, il metabolismo, il ciclo. Possono cambiare all’improvviso le urgenze e i desideri. Maria Corti ha detto che l’adolescenza è una faticosa esplorazione delle pareti della vita, ciascuno va a caccia del proprio tesoro finché non ne rintraccia un altro più forte che lo scalza. L’americana Candace Hill corse i 100 metri in 10.98 a 16 anni. È rimasto il suo primato personale per sempre. Kaylin Whitney fece 11.10 a 17 anni e poi capì che le piacevano i 400. Non tutte le bambine prodigio restano prodigiose fra le adulte. Monica Olmi vinse a 13 anni i titoli italiani nei 100 e 200 farfalla, ne aveva 14 quando nuotò la finale olimpica degli 800 stile libero a Los Angeles, quattro anni più tardi a Seul già non c’era più. È questo il giusto manuale di istruzioni per accostarsi a loro. Sia Kelly Doualla sia Alessandra Mao non sono state chiamate in nazionale per i Mondiali delle grandi, neppure per una batteria in staffetta, neppure per respirare solo il clima e vedere l’effetto che fa. Col tempo e con la paglia maturano le nespole: anche se non esiste più un’Italia che non ha l’età. Essere adolescenti oggi significa aver fatto esperienza del mondo, aver viaggiato, aver imparato l’inglese dalle serie tv; significa portarsi il mondo in tasca in uno smartphone, avere un accesso più diretto a ogni cosa. Alle occasioni, alle opportunità e ai pericoli. Essere adolescenti in Italia significa oggi dover fronteggiare in alcuni casi una dipendenza da cibo e disturbi alimentari , avere tendenza all’isolamento sociale , vivere in ansia per il cambiamento climatico. Significa cercare da qualche parte attenzione e cura, spesso tra le braccia dei nonni, oppure tra quelle di coetanei con i quali farsi i grattini dietro la schiena a scuola, amiche e amici a cui dedicare video ASMR, l’acronimo che sta per Autonomous Sensory Meridian Response, immagini con dei suoni, sussurri, fruscii che devono rilassare. Una delle ultime fotografie dei comportamenti degli adolescenti italiani nel periodo post pandemia è arrivata dal Sistema di sorveglianza HBSC , coordinato dall’Istituto superiore di sanità con le Università di Torino, Padova e Siena. La percentuale dei teenager che si reputa in uno stato di benessere psicologico è del 43% a 13 anni e del 32% a 15. Il 78% di loro si dice stressato dalle loro giornate piene di qualcosa, dalla scuola al post. Il 20% di loro ha già conosciuto un rapporto sessuale completo. Li immaginiamo sempre in preda a qualche emergenza e mai all’altezza di come siamo stati noi. Ma come ha detto Julio Velasco in una intervista di qualche mese fa a Repubblica, “i giovani nella maggior parte dei casi sanno risolvere le cose, hanno meno paura di cambiare perché non hanno molto da perdere, non tutto è patologico”. Hanno imparato a sbrigarsela da soli, figlie e figli di una nuova generazione di genitori che certe volte iper-protegge e altre volte è distratta, prigionieri del senso di colpa per il poco tempo passato in casa e inclini a riempire le giornate dei loro cuccioli con lezioni di judo, di inglese, di chitarra. Noi che osserviamo dall’esterno di camerette più inespugnabili delle migliori difese di Trapattoni tendiamo a dare la colpa ai telefonini e ai social. Ma una ricerca OMS del 2004 diceva che a quindici anni solo il 40% delle ragazze aveva un buon rapporto con i genitori e il 30% considerava insoddisfacente il dialogo. I social non c’erano. Già nel 1985 gli editoriali dei giornali italiani dedicavano pagine e riflessioni al “linguaggio pesante” usato dalle quindicenni. Fulvio Scaparro, docente di psicopedagogia alla facoltà di filosofia della Statale di Milano, diceva al Corriere che “stiamo vivendo in una civiltà che insegna l’orrore delle macchie”, e ne parlava a proposito dei molti spot che promuovevano prodotti contro la forfora, le traspirazioni, la cellulite. Avremmo scoperto con il passar del tempo che quest’orrore adulto per le macchie in realtà le conteneva tutte, pure quelle metaforiche, soprattutto le macchie nel rendimento: l’ossessione del risultato da inseguire, il rigetto della fallibilità, il rifiuto dell’idea che si può cadere e che si sbaglia, che la condizione della sconfitta è la più comune e ci riguarda tutti. Nel 2024 un milione e 560mila giovani in Italia hanno lasciato lo sport per burnout, esausti dall’ansia della prestazione. Da questo orizzonte patologico si sta progressivamente allontanando una nuova generazione di atlete e atleti, consapevole che una performance senza la serenità mentale non porta da nessuna parte. Kelly Doualla dice di correre perché si diverte. Alessandra Mao dice di nuotare perché si diverte. Iscriverle già oggi alla generazione che andrà ai Giochi di Brisbane 2032 è quanto di peggio possiamo immaginare. Sono fragole nel deserto, dice degli adolescenti l’impresa sociale Con i bambini. Chiedono delicatezza. Non significa fragilità. Hanno solo un codice che dobbiamo imparare. Nel frattempo lasciamole divertire.

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Angelo Carotenuto