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Doping, Magnini squalificato: dov'è la verità? La ricostruzione

Nuoto

Lia Capizzi

Dimezzata la richiesta di 8 anni del Procuratore Nado, Pierfilippo Laviani. Il TNA condanna il pluricampione di nuoto alla squalifica di 4 anni per tentato uso di doping. Magnini alza la voce in attesa del ricorso al TAS: "E’ accanimento personale. Non ci sono prove". Un campione che in piazza diceva "no al doping" e invece tra le mura di casa pensava di farne uso? E’ colpevole? O è una vittima? La sensazione è che questa vicenda sia tutt'altro che chiusa

MAGNI SQUALIFICATO: "SENTENZA GIA' SCRITTA, E' UN ACCANIMENTO"

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E’ una condanna pesantissima. Rispetto agli 8 anni richiesti dall’accusa, dal procuratore Nado Pierfilippo Laviani, la prima sezione del Tribunale Antidoping presieduto da Adele Rando ha dimezzato la pena. Sono state escluse le violazioni di somministrazione (articolo 2.8 del codice Wada) e di favoreggiamento (articolo 2.9). Resta in piedi il capo di imputazione più grave: consumo o tentato consumo di sostanze dopanti (articolo 2.2.). Non conta il fatto che in sede di giustizia ordinaria al Tribunale di Pesaro la posizione di Magnini sia stata archiviata: “Non c’è mai stata la prova che Magnini abbia ricevuto e assunto quelle sostanze. Per noi la questione non esiste”, secondo il procuratore capo di Pesaro, Cristina Tedeschini. Non è il primo caso e non sarà nemmeno l’ultimo, di diversità tra una giustizia ordinaria che archivia e una giustizia sportiva che condanna. Sono due binari paralleli e ben distinti, per la giustizia sportiva è l’imputato che deve dimostrare la propria innocenza, questa la differenza sostanziale.

La procura sportiva è inflessibile, il solo sospetto viene punito. Il sospetto insito nelle numerose intercettazioni di conversazioni avvenute tra il 2015 e il 2016, prima delle Olimpiadi di Rio de Janeiro. Telefonate tra Magnini e il compagno di nazionale Michele Santucci, anch'egli squalifcato per 4 anni. Telefonate tra Magnini e il suo nutrizionista Guido Porcellini che è ancora sotto inchiesta penale a Pesaro per presunto traffico di doping. Lo stesso Porcellini con alle spalle una condanna in primo grado a 8 mesi, per traffico di cocaina, e che lo scorso luglio è stato inibito per 30 anni dal Tribunale Nazionale Antidoping.

Conversazioni che per l’accusa basterebbero a provare il tentativo -o quanto meno il pensiero -di pratiche antisportive. Per il procuratore Laviani nelle telefonate intercettate si nascondono parole d’ordine, viene usato un linguaggio in codice per mascherare l’uso di sostante proibite. La difesa di Magnini, rappresentata dai legali Francesco Compagna e Ruggero Stincardini, ha cercato di smontare l’impianto accusatorio: il telefono di Magnini, sotto controllo dal 30 novembre 2015, riporta parole in libertà, pur con un tono a volte da guascone, ma sostanzialmente chiacchiere innocue di quelle che si usano tra compagni di squadra.

Magnini alza la voce, parla di persecuzione, accusa il procuratore Laviani di accanimento personale e di irregolarità processuali, annuncia di voler ricorrere in appello fino anche ad arrivare eventualmente al TAS di Losanna, ultimo grado di giudizio. Resta la gravità di una squalifica che è una batosta e coinvolge – gioco forza- tutto il nuoto azzurro. Perchè il pesarese, ritiratosi dalle competizioni un anno fa, in vasca ha rappresentato una delle figure più importanti del movimento italiano, due volte campione del Mondo (2005 e 2007) nella specialità regina dei 100 stile, solo per citare i successi più importanti.  Magnini è pure da anni l’uomo simbolo dello sport pulito con la sua associazione “I am doping free”. Come leggere questi 4 anni – ripetiamo, pesantissimi - di condanna:  siamo alle prese con un Doctor Jackyll e Mister Hyde? Davvero siamo in presenza di un campione che in piazza diceva “no al doping” e invece tra le mura di casa pensava di farne uso? E’ colpevole? O è una vittima, caduto nel pressappochismo di fidarsi di un medico con un codice deontologico poco limpido? Le sentenze non si commentano, si accettano. La sensazione è che questa vicenda sia tutt’altro che chiusa.