Nessuno ha raccontato lo sport come Italo Calvino

Il giorno che morì Italo Calvino, la Formula 1 si era infilata in un sentiero di nidi di ragno andando a correre in Sudafrica, in pieno apartheid, così il governo francese impose a Ligier e Renault di non partire e boicottare. Giancarlo Antognoni era appena uscito dal suo castello dei destini incrociati ed era tornato a giocare dopo oltre un anno di assenza per la frattura scomposta di tibia e perone: un calvario spirituale finito davanti alla squadra giovanile del San Giusto con dei parastinchi e un plantare. Toccò quaranta palloni, tirò in porta due volte e le cronache del tempo riferiscono che mise pure la gamba in un tackle senza paura. Il giorno che morì Italo Calvino, Garry Kasparov era un barone rampante di 22 anni che sfidava il campione Anatolij Kasparov per il titolo mondiale di scacchi; Larry Holmes era un visconte dimezzato che stava per salire su un ring e battersi con Michael Spinks per quelle cinture dei pesi massimi che ancora gli mancavano; e le Coppe europee di calcio erano piene di cavalieri inesistenti, perché erano iniziate senza le squadre inglesi, a quattro mesi di distanza dalla messa al bando dopo la tragedia dell'Heysel. Calvino era morto poco prima dell'alba del 19 settembre 1985, alla fine di una dozzina di giorni trascorsi in ospedale per un'emorragia cerebrale che lo aveva colpito a Castiglion della Pescaia. Alberto Moravia disse che si trattava di una perdita irreparabile, Umberto Eco volle parlare solo dell'uomo che frequentava i musicisti di avanguardia, ma il Calvino che aveva attraversato lo sport rimase nell'ombra. Nessuno se ne ricordò. Solo da poco il mondo ufficiale delle lettere stava facendo cadere la diffidenza verso un settore che il fascismo aveva cavalcato e spremuto per la sua propaganda. Tre anni prima, al Mundial di Spagna, il Corriere della Sera aveva inviato Mario Soldati, il Giornale contava su Manlio Cancogni e Giovanni Arpino, il Mattino schierava dall'Italia Alberto Bevilacqua, L'Unità aveva chiesto un paio di reportage di costume a Paolo Volponi. Cinque premi Strega che scrivevano di calcio. Un'eresia fino agli anni Sessanta, quando l'amore per il pallone dichiarato da Pier Paolo Pasolini era ancora un'eccezione. Ma era stato un pioniere delle eccezioni anche Calvino, quando non ancora trentenne era stato inviato da L'Unità alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. Il giornale lo aveva già mandato una volta allo stadio di Torino per Italia-Inghilterra, quattro anni prima, e lui non aveva trovato di meglio che restarsene fuori dallo stadio, tra le vie della città, per raccontare in 40 righe uno 0-4 che non aveva visto. Oggi nei giornali lo chiamerebbero "un pezzo nostro", "uno sguardo laterale". Laterale e originale, ma dovremmo dire unico, irripetibile, Calvino era in effetti già ottant'anni fa. Non aveva particolare dimestichezza con lo sport, lo confesserà lui stesso. Aveva inserito il ping pong in una pagina de Il giardino incantato, uno dei racconti della raccolta uscita tre anni prima. "Scrivo per imparare qualcosa che non so". Alle Olimpiadi in Finlandia aveva portato il suo occhio vergine, disposto a stupirsi per i dettagli e l'inatteso, come l'invasione di campo di una ragazza durante la cerimonia d'apertura, una giovane di Stoccarda, Barbara Rotraut Pleyer, appartenente a una setta religiosa protestante, decisa a portare un messaggio di pace ai Giochi della guerra fredda. Calvino si appassionò all'atletica. Rimase incantato dalle tre medaglie d'oro del ceco Zatopek . Scriveva con la consapevolezza di chi stava raccontando un grande evento popolare ai lettori dell'organo del PCI. I carrarmati sovietici a Praga non erano entrati ancora. "Cantate pure con contentezza il vostro inno ogni volta che le stelle e le strisce salgono sul pennone: nessuno può negare che il vostro sia un grande popolo" disse degli americani, ma quando si tiene conto della diffusione della pratica sportiva nella gioventù - aggiunse - "allora l’America scompare e l’Unione Sovietica ha un vantaggio incontrastato". Americane saranno invece le sue memorabili lezioni per l'Università di Harvard e pubblicate postume , lezioni che ancora oggi scomodiamo qua e là per raccontare di biciclette e palloni, racchette e canestri - la leggerezza soprattutto. La leggerezza calviniana, aggiungiamo. Più disposti a citarla che a praticarla.

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Angelo Carotenuto