Il ruolo dei genitori nella vita degli sportivi. E quando il genitore è l'allenatore...

Il Mondiale di atletica appena concluso ha offerto due immagini simboliche. Larissa Iapichino, seguita dal padre-allenatore Gianni, non è riuscita a qualificarsi per la finale. Mattia Furlani, guidato dalla madre-allenatrice Khaty Seck, ha invece festeggiato un oro mondiale. E, ovviamente, le reazioni dei due genitori/allenatori sugli spalti sono state opposte. Stesso legame familiare e lavorativo, esiti diversi. Ma “va detto subito che i due episodi non sono paragonabili – osserva Francesca De Stefani, psicoterapeuta e psicologa dello sport – perché una variabile fondamentale cambia tutto: nel primo caso c’è una sconfitta, nel secondo una vittoria. È il risultato a condizionare reazioni e percezioni. Sarebbe stato diverso se entrambi avessero vinto o entrambi perso”. Il peso delle proiezioni familiari Che sia o meno l’allenatore di suo figlio, spesso un genitore condiziona la vita sportiva dell’atleta: “Capita molto spesso – spiega la Dottoressa De Stefani – che i genitori proiettino sui figli le proprie frustrazioni o il bisogno di realizzarsi attraverso di loro. È un fattore comunissimo, i casi in cui questo non accade sono rarissimi”. Un fenomeno che si esaspera quando il genitore diventa anche allenatore. “Molti tecnici riversano sui propri atleti paure e desideri irrisolti. Se la persona non lavora su sé stessa e non ha strumenti evolutivi, la situazione può diventare esplosiva. Ancor di più se quell’allenatore è anche il padre o la madre dell’atleta. I migliori allenatori sono quelli che sanno mettersi di lato, che non hanno bisogno di emergere attraverso l’atleta e che si sentono già realizzati. Così lasciano spazio ai giocatori di esprimere sé stessi, e questo cambia tutto”. Confini fragili tra casa e campo Separare i ruoli sembra semplice: in campo si è atleta e allenatore, a casa si torna a essere figlio e genitore. In realtà è una linea sottilissima, spesso superata senza accorgersene. “A casa bisognerebbe evitare di parlare di prestazioni ma è molto complesso, a meno che entrambe le persone non siano consapevoli del rischio e l’atleta non abbia un supporto che lo aiuti a mantenere alti i confini. Gli sportivi sono spesso adolescenti o giovani adulti, con una struttura emotiva ancora in formazione. È bello che un genitore si interessi all’attività del figlio, ma bisogna ricordarsi che il figlio resta tale nella vita di tutti i giorni, mentre solo quando entra in un campo sportivo diventa atleta. Questa distinzione è difficile anche per gli stessi ragazzi: un conto è la persona, un altro è l’atleta. Più la persona è in armonia con sé, più l’atleta riesce a liberare le proprie potenzialità. Ma se si parte solo dalla performance e ci si concentra solo sui risultati, come spesso accade in Italia, si finisce per trascurare la persona” sottolinea con forza De Stefani. Nuove generazioni e il bisogno di dialogo C’è poi un fattore culturale e generazionale. “Il mondo è cambiato radicalmente negli ultimi vent’anni e con esso lo sport. La pressione che vive oggi un atleta, anche non famosissimo, è incomparabile con quella di un tempo. Con un click, tutto diventa pubblico: non c’è più spazio per sbagliare o per essere sé stessi al di fuori del campo”. Anche i metodi di allenamento e motivazione devono adattarsi. Lo ha sottolineato Robert Lewandowski parlando dei compagni più giovani al Barcellona: “Prima gridare era un modo per motivare. Oggi, se gridi troppo, i ragazzi si chiudono. Serve più dialogo”. E De Stefani conferma: “Quando qualcuno ti urla contro, ci sono tre possibili reazioni: c’è chi si blocca e si inibisce, c’è chi si arrabbia e spacca tutto, e c’è chi riesce a chiedere un confronto, la risposta più evoluta ma anche la più rara. La maggior parte degli sportivi non è stata educata a gestire sconfitte o rimproveri: spesso in famiglia ogni vittoria viene celebrata, mentre dopo una sconfitta cala il silenzio. Quando lavoravo nei settori giovanili calcistici, anche di basso livello, vedevo una cosa a bordo campo che mi ha sempre colpito. Anche i genitori più ‘evoluti’ - ovvero quelli che non protestano, che non insultano arbitro e avversari e che non hanno comportamenti disfunzionali - avevano cambiavano atteggiamento in base alla vittoria o alla sconfitta del figlio. In caso di vittoria, c’era grande festa e veniva proposto ai bambini di andare a mangiare una pizza o un gelato. In caso di sconfitta, invece, nessuno parlava e a malapena si vedeva un accenno di sorriso. Questo un bambino lo percepisce e interiorizza che solo il successo è positivo, mentre la sconfitta va demonizzata. Sarebbe molto più utile – spiega De Stefanis – premiare un figlio proprio quando perde, perché è lì che ha più bisogno di sentirsi sostenuto”. Il ruolo delle società sportive In tutto questo c’è un terzo ‘elemento’ da non dimenticare: le società sportive, che “Possono e devono fare di più. La maggior parte degli atleti che seguo non aveva mai incontrato uno psicologo dello sport prima di me. Spesso veniamo chiamati dalle società solo nei momenti di crisi, dopo una serie di sconfitte o per comunicare brutte notizie. Ma lo psicologo non dovrebbe servire solo a migliorare la prestazione: deve occuparsi prima di tutto della persona. Se un atleta si sente libero e in armonia con sé stesso, la performance arriva di conseguenza. Un trequartista fa la giocata più bella solo quando si sente libero di esprimere la sua creatività. E questo vale in tutti gli sport”. Un altro nodo, secondo De Stefani, è la scarsa presenza femminile negli staff tecnici e dirigenziali: “Ci sono ancora troppe poche donne nei contesti sportivi maschili, ma purtroppo anche in quelli femminili. Una maggiore presenza femminile aiuterebbe ad avere un approccio emotivo più equilibrato, molti uomini non sono abituati a confrontarsi con uno sguardo diverso dal loro”. Consigli per genitori e atleti Ma quindi, cosa fare concretamente? Per De Stefani c’è un aspetto fondamentale: “La prima cosa che insegno ai genitori è che il figlio ha diritto di essere imperfetto. Non è scontato: viviamo in una società che ci bombarda con immagini di perfezione e che porta a pensare che quella sia la norma. La seconda – prosegue – è imparare a fare domande semplici, legate al benessere: ‘Come ti senti?’, ‘Come hai dormito?’, ‘Che emozione provi?’, ‘Perché non mangi?’. Bisogna lavorare sulla parte emotiva, non su risultati, procuratori e classifiche. E meno i genitori entrano nello spazio sportivo del figlio, meglio è. Così facendo, paradossalmente, aumentano anche le possibilità che arrivi il risultato che tanto desiderano”. Non mancano le indicazioni anche per gli atleti: “Consiglio a tutti di non vergognarsi della propria vulnerabilità. Chiedere aiuto è un diritto. Più un atleta ha strumenti per essere sé stesso, senza paura di emozioni scomode o momenti di crisi, più si realizza come persona e come sportivo. La carriera dura poco, la vita è lunga: non bisogna mai perdere di vista chi si è, oltre l’immagine di atleta. Un atleta resta sempre prima di tutto una persona. Se dimentichiamo questo, perdiamo entrambi: sport e vita”.

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Emiliano Tomasini