Lonati: "Sono pronto per gli Usa. Ma prima voglio l'oro agli Europei U18"

Come l'eroe mitologico con cui condivide il nome, Achille Lonati non ha paura. Affronta ogni avversario che gli si presenta sul parquet, con la sicurezza dei suoi 18 anni che gli fa dire di poter affrontare chiunque con un pallone da basket tra le mani. Chiedere ai coetanei di Team Usa, la meglio gioventù della palla a spicchi mondiale, che nell'agosto 2024 si sono visti recapitare 20 punti da Lonati nella finale del Mondiale di categoria, frutto di un chirurgico 6/6 dalla lunga distanza. Quella partita poi è stata vinta comunque dagli Stati Uniti, ma non è difficile immaginare che più di un osservatore abbia preso nota delle qualità della guardia cresciuta nelle giovanili dell'Olimpia Milano. Da un eroe a un altro, da Achille a Ulisse: dopo aver brillato in Europa, Lonati è pronto al grande salto negli States, dove ad attenderlo c'è il college di St.Bonaventure, in Division 1, il massimo livello dello sport universitario americano. Precettato niente di meno che da Adrian Wojnarowski, in arte 'Woj', l'ex giornalista sportivo più importante di tutto il panorama cestistico Usa, oggi diventato general manager a St.Bonaventure, che ha deciso di selezionarlo per la sua prima stagione dietro la scrivania. Prima di partire c'è però un Europeo Under 18 da giocare, in programma in Serbia dal 26 luglio al 3 agosto, con l'obiettivo di replicare l'oro ottenuto dalla nazionale Under 20 pochi giorni fa. Poi sarà college basketball, poi saranno Stati Uniti, per inseguire un sogno chiamato NBA che solo chi non ha paura può sperare di raggiungere. Proprio come Achille. Qual è il tuo primo ricordo legato al basket? “Il mio primo ricordo risale a quando andavo ancora all’asilo, avrò avuto 4 anni. Stavo camminando per il mio paesino, Gropello Cairoli, con mio nonno e mio fratello e abbiamo visto un cartellone per l’inizio dei corsi di basket. Da lì abbiamo cominciato”. È stato spontaneo iniziare con la pallacanestro o hai seguito l’esempio di qualcuno in casa? “Io ho seguito mio fratello, quando abbiamo iniziato insieme. Da piccolo ero molto timido e chiuso di carattere, da solo non sarei mai andato: mi faceva un po’ paura stare in campo con i bambini più grandi, quindi stavo sugli spalti da solo a palleggiare. C’ho messo un po’ a convincermi a entrare sul parquet”. Giocatore preferito in assoluto? E quello a cui ti ispiri di più? “Il mio idolo è LeBron James, senza dubbio. Quando ero piccolo seguivo tutte le sue partite a Miami, ricordo ancora tutti i roster degli Heat di quelle stagioni. Non c’è invece un giocatore a cui mi ispiro, cerco di apprendere qua e là da tanti atleti diversi”. Parlando di stili di gioco, in cosa ti senti più forte? In quale fondamentale invece pensi di dover lavorare ancora? “Il mio punto forte è il tiro. Mentre devo migliorare ancora tanto sulla difesa, soprattutto nelle letture sui pick&roll. Per il lato offensivo, invece, mi piacerebbe cercare di diventare più playmaker”. Nell’ultimo anno hai fatto molta esperienza, anche con la prima squadra. Cosa hai imparato? C’è un consiglio che coach Ettore Messina ti ha dato che ti è rimasto impresso? “In questa stagione c’è stata una bella transizione rispetto alle scorse, perché il gioco è diventato molto più da ‘adulti’. Abbiamo lavorato meno sulle individualità e più sul gioco di sistema, per capire i mismatch che si creano in campo e creare canestri più facili. Grazie a coach Messina ho imparato che in allenamento non ci si può mai distrarre, che bisogna essere sempre concentrati. Stando a contatto con la prima squadra poi, capisci la forza e l’atteggiamento di chi è già arrivato ai massimi livelli”. Ti stavi creando un tuo spazio in prima squadra, eppure nella prossima stagione non giocherai più a Milano. Cosa ti ha fatto scattare la voglia di provare un’esperienza lontano dall’Olimpia? “Ormai il cammino delle giovanili era finito. Avrei potuto fare un altro anno in Under19 ma avrebbe avuto poco senso fare lo stesso campionato per la terza stagione di fila. Ho pensato fosse il momento giusto per cambiare. Anche perché ho appena finito le scuole superiori, e andare in un college è il modo migliore per far combaciare sport e studi. In Italia spesso è complicato essere studente e atleta allo stesso tempo. Il gioco NCAA poi mi piace, il livello è buono, è una via di mezzo tra un torneo giovanile e un campionato di Serie A o A2, perfetto per lavorare sia sul fisico sia sulle carenze tecniche. Per tornare magari fra qualche anno in Europa pronto e avere il mio spazio”. Come mai la scelta per il college è ricaduta su St.Bonaventure? “Avevo parlato anche con altri college prima, come per esempio Texas Tech. Quello che ha fatto la differenza è stato l’approccio di Woj: mi è piaciuto molto, si vede che ci teneva ad avermi con loro e che era pronto a darmi un ruolo importante nella squadra. Il livello è giusto per me, posso avere minuti e migliorare, in altre scuole avrei avuto dei giocatori davanti nelle gerarchie e non sarebbe stato facile emergere. Dopo pochissime chiamate mi hanno voluto a fare una visita, si notava che mi conoscevano e avevano seguito i miei progressi: mi hanno fatto sentire davvero apprezzato”. Woj che tipo è? “Lui è super, mi scriveva quasi tutti i giorni, tanto che il mio agente a un certo punto gli ha chiesto di farmi scegliere in tranquillità senza pressioni . È una persona fantastica, oltre al basket si interessava a come stesse andando la scuola e la mia vita privata, si è interessato a 360°. Il suo modo di fare ha fatto la differenza”. Sotto quale aspetto il mondo NCAA ti incuriosisce di più? Quale invece quello che ti spaventa? “Il fatto che sia tutto nuovo. Sono abituato qui in Italia a conoscere quasi tutti gli avversari, tra tornei e finali nazionali. Bene o male anche in Europa, con le Next Gen, capita di vedere gli stessi giocatori. Andando in America invece non conosco nessuno, in primis i miei compagni di squadra, e non so ancora quale sia il loro stile di basket, né quello degli avversari che affronterò. Questa novità mi incuriosisce e mi spaventa allo stesso tempo. Però sono fiducioso: sarà a prescindere una grandissima esperienza a livello personale”. Nel 2024 avete centrato la medaglia d’argento ai Mondiali U17, perdendo in finale contro Team Usa. Com’è stato questo primo approccio con il basket americano in ottica futura? Su cosa devi lavorare per competere ad alti livelli in quella realtà? “Contro Team Usa ero sceso in campo con la convinzione di potercela giocare, come tutte le altre partite del torneo. Purtroppo non è stato così, loro sono stati superiori. La cosa che più mi ha spiazzato è stato il pressing a tutto campo: ragazzi tutti alti più di 2 metri, larghi, con grande elevazione, che giocavano in raddoppio costante. Non ci hanno fatto vedere niente, ci hanno messi in difficoltà già solo nel riuscire a trovare uno spazio per far uscire il pallone. Questa aggressività ci ha destabilizzati. Anche perché a livello tecnico e di letture eravamo vicini, forse eravamo addirittura migliori noi. In ottica futura penso di avere delle basi di comprensioni del gioco migliori rispetto a buona parte degli atleti presenti in NCAA: sarà un’ottima base da cui partire”. Fai parte di una generazione molto promettente, insieme a Garavaglia, Sarr e Perez, solo per citarne alcuni: i ragazzi del 2006 e del 2007 potrebbero essere il futuro della nazionale. Come la vedete per i prossimi anni? “Le basi buone ci sono. Però è ancora tutto da vedere, è complicato parlare adesso, siamo tutti molto giovani e abbiamo tanta strada ancora da percorrere, magari qualcuno di noi scomparirà nel percorso. Non voglio portare sfortuna però sono fiducioso. In queste annate ci sono dei giocatori con tantissimo talento, spero riusciremo tutti a esprimere il nostro massimo potenziale”. State per cominciare un Europeo che vi vede tra le favorite. L’obiettivo personale e di squadra? “Puntiamo all’oro, senza dubbio. Per quanto mi riguarda posso anche fare 40 minuti in panchina tutte le partite, non mi importa. L’importante è vincere”. La squadra da tenere d’occhio? “Le solite: Francia, Spagna e Lituania”. L’ultimissima domanda. Se tutto dovesse andare nel modo migliore, dove ti vedi da qui a cinque anni? “In un mondo ideale il sogno più grande probabilmente sarebbe essere draftato in NBA”.

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Simone Dagani