Sport o realtà?

Opinione personale: nessuno ha cambiato il business sportivo quanto David Stern. La storia, probabilmente, la conoscete: Stern, allora giovane e brillante avvocato newyorchese liberal, diventa Commissioner di un’azienda, NBA, in crisi. Nel 1984, quando il nuovo manager si insediò, gli indicatori economici e di mercato di quell’azienda disegnavano un quadro radicalmente negativo; trent’anni dopo, quando il compianto Stern fece un passo di lato, quel quadro era stato ribaltato come un calzino. Perché ne parlo? Perché ricordo di aver sentito David Stern dire : il basket NBA è l’unico vero reality show. Quando sentii quelle parole non ci feci caso, ma oggi che l’osservazione vale per gran parte dello sport di alto livello comprendo che si trattava di un’intuizione profonda. Cos’è un reality show? Jelle Mast, esperto belga di comunicazione, lo definisce “Un ritratto fortemente narrativizzato e drammatizzato di esperienze vissute in situazioni non sceneggiate ma controllate”. Mast sostiene, tra l’altro, che i suoi toni assertivi vengono giustificati dal fatto che quello spettacolo, tecnicamente, è vero . Reality show, però, è un ossimoro: la realtà, che pur dà spesso dei bei punti alla fantasia, non può essere sempre spettacolare. Se tale risulta, vuol dire che qualcuno la rappresenta in maniera da renderla così. Fuor di metafora, le 1230 partite della regular season NBA non possono essere tutte portatrici di momenti narrativi forti. La scelta fatta da NBA, e da altri, è stata quella di valorizzare quei momenti, fino a farli diventare il simbolo e il paradigma dell’intero prodotto. Naturalmente, spettacolarizzare la componente drammatica dello sport non è né nuovo né sbagliato. Già negli anni ’60 NFL Films usava infatti immagini in pellicola, musiche dedicate e la voce dell’incredibile John Facenda per farci venire la pelle d’oca. E se è chiaro che questa drammatizzazione nasce da esigenze commerciali, queste ultime sono sia legittime sia auspicabili, nella misura in cui concorrono allo sviluppo e al fascino di un fenomeno, lo sport, che sfida il tempo con grande successo. E allora, vi chiederete, dove sta il problema? Il problema, come sempre per l’essere umano, sta nell’equilibrio, nella misura. Per rendere più appetibile il prodotto, la soluzione perfezionata durante la gestione di Stern è stata quella di puntare sul concetto di drama. Questa parola greca in inglese significa sia ‘dramma’ in senso letterario, cinematografico o teatrale, sia, cito il Merriam-Webster, “uno stato, una situazione o una serie di eventi che coinvolgono conflitti di forze interessanti o intensi”. Mentre però solo grandi talenti artistici sono in grado di scrivere la sceneggiatura di una fiction veramente drammatica, lo sport ha la capacità organica di produrre, senza un copione, svariati momenti veramente drammatici. È una gran cosa, che dà senso alla frase di Stern dalla quale siamo partiti. E, personalmente, questa cosa mi piace come e più del primo giorno in cui l’ho assaporata. Resta, però, la questione del modus in rebus. Lo sport, a partire naturalmente dai media che ne fanno indissolubilmente parte, non si sta a mio avviso chiedendo abbastanza se il circuito che abbiamo descritto rischi di essere foriero di aspettative esagerate e di conseguenze negative. Questo stato di cose produce una vasta serie di conseguenze: eccessi di celebrazione e di dissacrazione di vincitori e vinti, riduzione di una vicenda agonistica a uno o due suoi frammenti, perdita di interesse per ciò che, per quanto non drammatico, fa parte a pieno titolo dello sport. Mi spiego con un esempio: l’Eurobasket 2025, che SKY Sport racconterà a partire dal 27 agosto, conterrà certamente momenti drammatici. Il problema è che ormai pretendiamo che momenti di questo tipo siano sempre più interessanti e intensi. È appena evidente, però, che nessuna attività umana può soddisfare questa richiesta. Al massimo, si può fingere che sia così. Inoltre, la nostra dipendenza mette l’asticella talmente in alto che limitiamo una manifestazione del genere a pochissime cose: il risultato dell’Italbasket, l’MVP della finale e le due o tre situazioni che diventano virali. Il resto, ahinoi, viene inglobato in un pastone indistinto che Byung-Chul Han definisce una “Memoria denarrativizzata [che] assomiglia alla bottega di un rigattiere, un deposito pieno fino all’orlo di tutte le immagini possibili, completamente disordinate, mal conservate e di simboli logorati”. Invece, quei momenti iconici sono tali solo grazie ai molti altri che spettacolari non sono. Esiste un’alternativa? Mi illudo di sì, e mi illudo che stia nel guardare al fenomeno nel suo complesso, nell’osservarlo con attenzione e spirito critico, nel non pretendere di essere testimoni della storia ogni cinque minuti. E anche nel guardare sì anche fuori dal campo, ma non solo a quello. Per circostanze che non ha costruito, lo sport si trova ad avere una responsabilità sociale molto delicata in questo momento storico. Può scegliere di esercitarla con equilibrio e con continenza oppure farsi portare dalla corrente della narrazione drammatizzata. Il pessimismo della ragione mi fa propendere per la seconda ipotesi, ma sarei davvero lieto di sbagliarmi .

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Sport o realtà?

Flavio Tranquillo