Dan Peterson: "Vi racconto la Mia Olimpia"

‘Mia’: aggettivo possessivo, indica a chi appartiene qualcosa. Per coach Dan Peterson c’è solo un’Olimpia Milano, la sua. E la racconta ne ‘La Mia Olimpia’, appena pubblicato per le Edizioni Minerva. Centouno capitoli che Peterson e il suo compagno di viaggio Umberto Zapelloni definiscono, con ampia modestia, semplicemente delle ‘storie’, ma che in realtà sono deliziosi quadri che compongono uno strepitoso museo della pallacanestro, e della società, italiane tra la fine degli anni ‘70 e la seconda metà degli ’80. Di cui l’Olimpia Milano, nella sua versione Billy, Simac o Tracer, è stata ‘la’ protagonista più amata, imitata, invidiata, detestata, anche. Come nel destino di tutte le squadre che hanno segnato un’era. Centouno tappe di un percorso che attraversa una Milano a tinte biancorosse, parte dalle scrivanie di via Caltanissetta 3 , scivola giù a far due tiri alla palestra secondaria del Palalido , si ferma a mangiare al ristorante Torchietto, risale verso il palazzo dello sport di San Siro , si sposta al Palatrussardi e chiude la sua parabola al Forum di Assago, nel 2011, quando Peterson torna ad allenare l’Olimpia per 27 partite per chiudere un cerchio aperto 33 anni prima. Coach, è singolare che Lucio Dalla, un tifoso della Virtus Bologna, la squadra da cui lei arrivava, avesse scritto ‘Milano vicino all’Europa’, e lei sarebbe diventato quello dell’ ‘olè da torero’. Un idolo per i tifosi, un punto di riferimento per gli appassionati, un personaggio capace di cambiare il mondo della comunicazione, sportiva e non. Solo che, sbarcato a Milano nel 1978, tutto questo non lo sapeva ancora… “Mi dispiaceva lasciare Bologna ma sapevo che il mio destino erano Milano, la New York d’Europa, e l’Olimpia, anche se non era più la mitica Simmenthal di Rubini. Il pronostico, al mio primo anno, era già scritto: dovevamo retrocedere, ci davano per spacciati. E invece stupimmo il mondo con la 'Banda Bassotti', sei ragazzi presi dalla juniores su dieci . Per vincere dovevamo mordere le caviglie, sputare sangue. Quel soprannome mi piacque subito. Anche perché chi lo inventò mi ribattezzò 'Nano ghiacciato'. Nano tra i bassotti, mix perfetto”. In poco meno di un decennio la squadra diventa un mito e vince tutto: quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa Korac, due Coppe Italia. Nel 1986/87 la stagione perfetta, il Grande Slam. “Si parte sempre dalla società e dal suo presidente: arrivo a Milano e trovo il cavalier Bogoncelli, un uomo d’altri tempi, ma un genio con una visione del futuro senza uguali. Poi arrivano gli anni di Gianmario Gabetti, giovane ed entusiasta, capace di ascoltare e di imparare. Si fidava di me, io di lui. Al mio fianco sempre Toni Cappellari, più che un direttore tecnico: con lui nove anni e zero litigi, zero discussioni, con una grande abilità: sapeva dire di ‘no’. E soprattutto Franco Casalini, il miglior viceallenatore d’Italia. Se ero squalificato, lui andava in panchina e vinceva sempre. Quell’Olimpia è stata la mia casa, dal medico al magazziniere, era la mia famiglia. A me non restava che inventare la miscela giusta, mettendo in pratica la lezione dei miei modelli”. Che erano gli allenatori e i manager più celebrati, i grandi della storia del basket, giusto? “No no, non ci siamo. Ho imparato tutto da due maestri, quando ero un adolescente di Evanston, dove sono cresciuto: nella mitica Oakton School c’era una prof di educazione fisica, Helen Lindqvist, che mi dava il compito di formare le squadre per i tornei inter-classe e da lei ho imparato che per primeggiare non servono i più simpatici della scuola ma i più vincenti, quelli che stanno antipatici a tutti. E poi, alle medie, coach Ferris Jackson, un gigantone da un metro e 88 che faceva paura a tutti e mi aveva scelto come segnapunti della squadra di basket, praticamente un viceallenatore: un giorno del 1948, alla fine del primo tempo eravamo sotto di 15 e nell’intervallo lui, entra nello spogliatoio e chiede a bassa voce: ‘ditemi voi chi è in grado di marcare Huff?’, l’avversario più forte, che ci stava facendo a fette. Timidamente, uno dei nostri alzò la mano e si propose. Allora coach Jackson sibilò: ‘OK, il primo tempo è stato loro, il secondo sarà nostro’. Vincemmo la partita. Sai quante volte ho rubato a coach Jackson questa scenetta? Innumerevoli. Ed è andata sempre bene”. Sì, ma in campo poi andavano i fuoriclasse. Lei ha allenato gente come Bob McAdoo, Mike D’Antoni, Dino Meneghin, Roberto Premier. Roba da Hall of Fame… “In campo andava la loro voglia di vincere, la loro fame di successi. Era incredibile: al venerdì portavo al campo di allenamento cinque banconote da mille lire, le attaccavo al canestro e dividevo i giocatori in due squadre: si vinceva a 22 ed erano battaglie terribili per mettersi in tasca quelle mille lire a testa. McAdoo, se perdeva, attaccava al muro i compagni e non parlava per un’ora”. Rimpianti per non aver mai allenato in NBA? “Ho allenato McAdoo, il più forte americano mai arrivato a giocare in Europa. 2 metri e 10, grande apertura di braccia, tre volte primo realizzatore in NBA, con 34 punti di media a partita, un’ala con un eccellente tiro in sospensione, grande elevazione, due titoli NBA vinti, due finali, una volta MVP. Allenare Bob è stato come allenare in NBA”. Lei è stato il coach che ha ‘modellato’ uno dei più grandi allenatori di basket dell’era seguente, Mike D’Antoni. Chi ha dato di più all’altro? “Vorrei tanto dire che D’Antoni mi deve qualcosa… ma quando sono stato eletto nella Hall of Fame della FIBA gli ho scritto io una lettera per ringraziarlo. Sono i giocatori che vanno in campo. Ciò che devo a lui, a Gallo, a Meneghin, a McAdoo è un debito insanabile”. La signora Laura interviene nella conversazione e rinforza il concetto: “Erano talmente uniti che non c’era un personaggio ma c’era solo il gruppo, la Squadra”. E intanto l’Olimpia di oggi, salutata l’Eurolega, si tuffa nel campionato per dare un senso alla stagione. Come la vede? “Detto che uscire dall’Eurolega con 17 vittorie non è un bilancio da buttare, a questo punto – fossi un allenatore in Serie A – non vorrei mai incrociare l’Olimpia. Hanno una sola partita a settimana, recuperano qualche infortunato, rimettono le cose a posto e sono i favoriti per lo scudetto. Anche se la Virtus è tornata forte, Brescia è in testa praticamente dall’inizio e Trapani è una realtà”. Cosa farebbe Coach Dan Peterson al posto di Ettore Messina, a fine stagione? Considererebbe l’ipotesi di lasciare Milano? “Non ha certo bisogno di un consigliere, lui deve fare le sue valutazioni. Ma si prenda un po’ di tempo a fine campionato per decidere: se ha qualche dubbio, non continui; se è convinto, resti. Quando mi sono ritirato, nel 1987, ho sbagliato, avevo solo 51 anni e dovevo continuare. Avrei dovuto pensarci meglio, prendermi un mese e poi scegliere, a mente fredda. Così, se posso dare un consiglio a Messina, gli dico questo: a fine stagione fai due, tre settimane di vacanza, rifletti, magari fai un bel viaggio in America, e poi decidi”. Il prossimo 9 gennaio la ‘sua’ Olimpia festeggerà il novantesimo compleanno. “E sarà anche il mio novantesimo compleanno: 9 gennaio 1936-9 gennaio 2026. Quindi… Happy Birthday Olimpia!”.

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