Ciao Bruno, oggi è tutto molto brutto

Una volta l’Udinese giocò una partita di coppa Uefa contro il Legia Varsavia e la Rai, detentrice dei diritti, mandò Bruno Pizzul a raccontarla. Era il 1999, e non da molto la figura classica del telecronista era stata affiancata prima da una seconda voce ‘tecnica’, ovvero un allenatore o un ex-giocatore , e poi da un giornalista a bordo campo, seduto accanto alle panchine, incaricato di intervenire ogni tanto per descrivere il clima che si respirava lì dove c’era l’azione, le eventuali polemiche, i cambi in preparazione. Per coprire il bordo campo di Udinese-Legia venne mandato dalla sede di Trieste il mio amico Giovanni Marzini, che nel corso del primo tempo si trovò in una situazione imbarazzante: Pizzul non lo chiamò mai in causa, nemmeno dopo il gol di Roberto Sosa che sarebbe rimasto l’unico del match. Quando arrivò l’intervallo Giovanni si fece coraggio e chiamò Pizzul sul canale di servizio: “Perdonami Bruno, riesci a darmi la parola almeno una volta? Non vorrei che a casa pensassero che mi è successo qualcosa…”. L’ironia di una protesta così garbata da non essere nemmeno una protesta moltiplicò il senso di colpa di Pizzul, che dopo essersi scusato nella ripresa diede la parola a Marzini una dozzina di volte, facendolo parlare molto più di Chinaglia. E da quella volta, in ogni occasione possibile Bruno sollecitò l’impiego di Giovanni in squadra con lui perché ne aveva appunto apprezzato l’educazione, in contrapposizione - senza far nomi - ad altri colleghi che, col cronometro in mano, chiamavano la linea ogni tot minuti per far valere la loro fondamentale presenza. L’aneddoto di Udine descrive bene due caratteristiche di Bruno Pizzul: l’amore per le qualità della persona degna, ovvero il rispetto, l’educazione, l’ironia, la capacità di farsi piccolo per non intralciare la visione d’insieme - lui che era un gigante in senso figurato e anche fisico - e una certa distanza, sommessa ma profonda, dall’evoluzione del mestiere portata dalle tv commerciali. Bruno è stato la Rai nella sua accezione più nobile, il servizio pubblico dove l’accento va sulla parola servizio: in tempi di monopolio la Rai conteneva tutto il meglio della professione, e uno come lui imparò il mestiere da Nicolò Carosio e Nando Martellini e lo svolse accanto a Beppe Viola. Un Dream Team. Con l’arrivo di Mediaset, e poi di TelePiù/Sky, i parametri sono profondamente cambiati, l’enfasi è diventata parte essenziale del corredo del telecronista e la polifonia di voci attorno a una partita di calcio un’abitudine dalla quale non si torna indietro. Lui ha ovviamente accettato i cambiamenti che hanno investito anche il suo vissuto di telecronista, ma intimamente non ha mai nascosto la sua predilezione per il prima: una sola voce, ad accompagnare la forza delle immagini. Il mestiere di telecronista - l’ho sentito ripetere spesso - è diverso da quello del radiocronista. Telecronisti e radiocronisti Rai insieme trafelati nel correre verso Wembley è uno dei ricordi più divertenti che mi porto dietro. Era una sera di novembre del 1989, l’Italia giocava nel mitico stadio di Londra un’amichevole in preparazione al Mondiale 90, e il tragitto dei giornalisti dall’albergo alla lontana Wembley, tutti nello stesso pullman, divenne in breve disperante. Un unico, assurdo ingorgo. I trasporti dei giornalisti si muovono sempre in largo anticipo, eppure quella volta si rischiò davvero di non arrivare in tempo: dopo quattro ore di viaggio, rimpiangendo di non aver seguito il consiglio di usare la metropolitana, arrivammo in vista dello stadio. Per noi della carta stampata il problema era risolvibile, ci è sempre bastato arrivare un minuto prima dell’inizio per aprire il taccuino e tirar fuori di tasca il cronometro, non serve altro. Per radio e televisioni no, c’è tutta una serie di prove tecniche da fare, il settaggio dei microfoni e altre cose collegate: così, quando all’inizio della gara mancavano 15 minuti e lo stadio distava ormai 300 metri, proprio Bruno guidò con la sua voce inconfondibile la calata della Rai dal pullman e la corsa verso le postazioni. Dietro di lui, gambe in spalla, ricordo Sandro Ciotti, Bruno Gentili ed Ezio Luzzi. Una volta Beppe Viola definì Bruno “L’uomo più buono del mondo”, e nel mio piccolo ne sono buon testimone per la simpatia e l’affabilità che mi ha sempre dedicato - fin dai primi viaggi a fine anni 80, e lui era già una grande figura di riferimento nella comunità dei giornalisti sportivi - in quanto corregionale. ‘Triestin’ mi chiamava spesso, sottolineando il suo sentirsi ‘friulgiuliano’ e dunque unionista in una regione dove a volte ci si guarda sospettosi per le differenze caratteriali fra le due provenienze. Quella di Bruno in realtà era la terza - ‘bisiacco’ come Fabio Capello - perché la sua Cormons è in provincia di Gorizia, e lì l’ho visto qualche anno fa in occasione dell’ottantesimo compleanno, quando il Comune gli organizzò una specie di festa a sorpresa e ad abbracciarlo c’erano un sacco di giornalisti magari non più giovani come quando l’avevano conosciuto la prima volta, ma ugualmente affettuosi verso il grande maestro. Bruno venne ovviamente in bicicletta, come in bicicletta mi capitava di incrociarlo a Milano, nella zona di corso Sempione, spesso inseguito dalla ‘Tigre’ - ovvero la moglie Maria - le cui premure affettuose e determinate mi resteranno sempre nel cuore come esempio di un amore invecchiato meravigliosamente. Credo che Bruno se ne sia andato con un solo dispiacere, quello di non aver potuto celebrare una grande vittoria della Nazionale, per la quale provava un affetto incondizionato. E a questo proposito mi piace raccontare un aneddoto ignoto ai più, e relativo a quel disgraziato pomeriggio di Rotterdam nel 2000, quando l’Italia arrivò a pochi secondi dal titolo europeo, e invece il gol di Wiltord in fondo al recupero permise alla Francia di pareggiare in extremis, e poi il golden gol di Trezeguet ci avrebbe saldato il conto nei supplementari. Pochi istanti prima dell’1-1, in ossequio a un piano preparato nei giorni precedenti, Bruno aveva fatto entrare in cabina di commento Andrea Bocelli, pronto a cantare il suo ‘Vincerò’ subito dopo il suo triplice fischio. A dimostrazione che anche il telecronista più classico amava i fuori programma. Ma dovevano essere di quel livello.

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